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Escape room e videogiochi narrativi: imparare con We Are Müesli

I fondatori dello studio We Are Muesli ci hanno parlato di “Ludmilla”, la loro ultima escape room dedicata a Calvino, e dei giochi culturali interattivi che progettano per ragazzi e ragazze.

Metodologie 
12 dicembre 2023 di: Claudia Molinari, Matteo Pozzi
copertina

Claudia Molinari e Matteo Pozzi dieci anni fa hanno fondato We Are Müesli, uno studio “non convenzionale” in cui la loro creatività e un’attenta progettazione, che prende la forma di autoproduzioni o di partnership con diverse istituzioni, porta alla realizzazione di giochi interattivi a tema culturale. Non solo videogiochi: le opere We Are Müesliintegrano digitale e analogico per consentire ai giocatori di seguire una storia e approfondire argomenti diversi, e possono essere portati anche in classe.

I loro ultimi progetti esplorano per esempio il format dell’escape room da proporre a studenti e studentesse, ma anche ai docenti, come “Wer Ist Wer” (poi diventata libro game), dedicata ai 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino e realizzata in collaborazione con il Polo del ’900 di Torino), oppure “Ventiquattro Elle”, con un percorso a enigmi sul romanzo C’era due volte il barone Lamberto, ora allestita al Museo Rodari di Omegna. Al Festivaletteratura di Mantovadi quest’anno hanno proposto “Ludmilla”, un’escape room dedicata a Calvino e a Se una notte d’inverno a un viaggiatore.

1. Come è nata l’idea di We Are Müesli?

We Are Muesli nasce dal 2013 dalla nostra collaborazione come coppia creativa: lavoravamo entrambi in ambito di comunicazione, Matteo occupandosi di scrittura e copywriting e Claudia in ambito visivo e grafico. Siamo entrati nel mondo del gioco e del videogioco per dare spazio a una nostra urgenza creativa ed espressiva: non avevamo un’esperienza specifica in questo settore ci siamo cimentati in un prototipo di videogioco per una competizione internazionale promossa dalla fondazione olandese Jheronimus Bosch 500.

Il contest chiedeva cioè di produrre un videogioco come veicolo di promozione culturale. Con nostra sorpresa vincemmo, trovandoci così “incastrati” nella community del videogioco indipendente e a pensare di proseguire nell’ideazione di progetti creativi che usano questo particolare medium per raccontare storie rilevanti e temi di arte, storia e cultura, che si traducono poi anche in occasioni didattiche.

Seguirono quindi altri giochi, sempre a carattere narrativo – che è il filo conduttore di quasi tutte le nostre produzioni ludiche – come Venti Mesi, realizzato nel 2015 e dedicato alla Resistenza italiana, che ha trovato appunto diverse applicazioni anche in ambito scolastico. Negli ultimi 5 anni abbiamo sperimentato via via altri linguaggi e forme di gioco, non solo il videogioco puramente digitale, ma anche formati analogici (giochi in scatola e di carte), libri interattivi ed escape room.

I nostri ultimi progetti, come l’escape room Ludmilla, si basano proprio sul connubio tra dimensione analogica (esplorazione di spazio fisico, interazione con oggetti) ed elementi di un’interfaccia digitale che segue i giocatori nel corso dell’esperienza e aiuta a raccontare meglio la storia, grazie agli aspetti tecnici e user friendly messi a disposizione.

2. Come è andata l’esperienza di Ludmilla a Mantova?

È andata molto bene! L’escape room, aperta al pubblico in anticipo rispetto ai giorni del festival, ha visto una grande partecipazione. Dai survey che abbiamo lasciato per raccogliere le impressioni dei giocatori, abbiamo visto confermata la capacità di questo formato di gioco di attirare un pubblico (circa il 50% dei partecipanti) anche se poco familiare con il tema proposto, in questo caso Se una notte d’inverno un viaggiatore. L’altra metà dei partecipanti è stata invece motivata alla partecipazione proprio dal tema.

È interessante vedere come il gioco sia capace di parlare contemporaneamente due linguaggi e arrivare sia agli appassionati del genere, sia a chi potrebbe avere dei pregiudizi sul valore didattico e culturale della dimensione ludica. Del resto, si tratta di un medium affatto nuovo: a livello generazionale anche i docenti sono cresciuti con i videogiochi e li hanno sperimentati come consumo culturale di pari dignità di un film o di un libro.

3. Come si integrano concretamente digitale e analogico nei vostri progetti di edutainment?

Un progetto interessante pensato proprio per le aule scolastiche è stato Missione Pietrarubbia, creato con e per la Fondazione Arnaldo Pomodoro. L’obiettivo era realizzare un’esperienza di gioco per un’intera classe delle medie, fruibile quindi da un numero imprecisato di giocatori e che integrasse componenti analogiche e digitali in chiave collaborativa. La dimensione educativa e la sfida della “missione” per noi non è stata solo nel fare divulgazione sull’opera di Pomodoro, ma anche nel fare pratica d’archivio, nel selezionare e raccontare i contenuti della Fondazione.

Il gioco ha un’ambientazione fantascientifica, di esplorazione spaziale tra mondi immaginari e pianeti che rappresentano elementi dell’opera di Pomodoro The Pietrarubbia Group. La parte di videogioco vero e proprio è proiettata in classe per essere visibile contemporaneamente a tutta la classe, divisa in cinque “equipaggi”. A turno due componenti di ogni gruppo escono dalle “navicelle” (i banchi) per interagire con l’interfaccia digitale, mentre gli altri con le carte di grande formato del set “analogico” hanno il compito di collaborare all’esplorazione combinando tra loro le carte e comunicando in maniera corretta con i giocatori del turno.

Si integrano quindi due dimensioni, quella individuale dell’interazione con il digitale con quella di un costante lavoro di squadra. Le parole chiave dei nostri progetti si riferiscono a questo equilibrio: di dinamica collaborativa e integrazione tra analogico e digitale, in modo da arrivare a target diversi e creare esperienze interattive adatte a diversi contesti. Per esempio, anche con minigiochi per accompagnare percorsi museali, attività per la formazione aziendale, o videogiochi inclusivi che permettono di giocare a chi ha disabilità fisiche e cognitive, per esempio usando (come abbiamo sperimentato) la tecnologia dell’eye tracking.



Immagini: ©We Are Müesli (Ludmilla)