Dire, fare, insegnare
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Imprenditorialità e educazione civica: un nuovo modello didattico

Carlo Mazzone propone un’analisi delle nuove linee guida per l’Educazione civica e del ruolo presente e futuro degli insegnati nella formazione di cittadine e cittadini di domani.

Metodologie 
29 ottobre di: Carlo Mazzone
copertina

Le nuove linee guida dell'Educazione civica in Italia hanno reintrodotto l'insegnamento dell'educazione civica come materia obbligatoria stabilendo che essa deve essere trattata in maniera trasversale, coinvolgendo tutte le discipline. Si tratta, in realtà, di un’attività e una visione che ho sempre trovato del tutto naturale proporre ai miei studenti sin dal mio primo anno come docente, nel lontano 2004. Quando infatti, provenendo dal mondo del lavoro come professionista informatico, mi sono trovato per la prima volta nelle vesti del docente, ho cercato sin da subito di rompere quell’invisibile parete divisiva tra me e i miei studenti.

Ho cercato quindi un modo per avvicinare le classi non solo al mondo del lavoro ma alla vita vissuta, portando il mondo reale a diretto contatto con i giovani. Questo infatti ciò che, semplificando, si propone lo studio dell’educazione civica. Tra gli stimoli che ho visto più immediati e naturali ci sono di certo quelle legate all’imprenditorialità che non riguarda semplicemente la creazione di imprese, ma include lo sviluppo di competenze trasversali come la capacità di risoluzione dei problemi, il pensiero critico, la leadership e la gestione delle risorse. Queste competenze sono ovviamente fondamentali per formare cittadini attivi e responsabili, ma anche più semplicemente per rendere i nostri studenti migliori già nella loro attività di studio.

Il futuro già presente

Il nostro tempo scorre ormai sempre più velocemente e ci trasporta in un nuovo mondo in cui le relazioni sociali e interpersonali sono straordinariamente diverse da quelle di pochi anni fa. Un mondo in cui il lavoro e le sue forme sono talmente nuove da rendere difficile intravedere quanto ci aspetta tra appena 5 o 10 anni. Un mutamento radicale che vede la scuola arrancare, non comprendendo appieno che il cambiamento, reale e repentino, deve appartenere alla scuola stessa piuttosto che a chi usufruisce dei suoi servizi. Dobbiamo necessariamente confrontarci con nuove generazioni (Generazione Z, iGen, Post-Millennial ovvero i nati orientativamente tra il 1995 e il 2010, la cosiddetta Generazione Alpha cioè i nati dal 2010 in poi) che sono il nostro futuro e che troppo spesso ignorano colpevolmente il passato. Per preparare quindi il loro e il nostro futuro, che in alcuni casi è già presente, la nostra scuola non può limitarsi a sostituire una lavagna di ardesia con una LIM e impiegare i sistemi tecnologici sperimentati per la DaD durante il Covid. Una didattica in presenza con un numero di alunni che sfiora spesso le 30 unità non può essere la soluzione di tutti i problemi.



Se non si capisce che dall’educazione e dalla formazione di ragazze e ragazzi dipende la nostra stessa sopravvivenza sociale, non si capirà neanche l’urgenza di rendere accettabile il numero degli alunni per classe. Allo stesso tempo, classi con un numero più ragionevole di studenti consentirebbero di realizzare anche un tipo di didattica progettuale e orizzontale, con interventi in grado di coinvolgere in contemporanea differenti gruppi di studenti. In questo modo ragazze e ragazzi potrebbero imparare a interagire con gruppi esterni al proprio e lavotrare su competenze trasversali centrali per il loro futuro lavorativo e di vita. Inoltre sarebbe più facile e naturale formare, prima che dei lavoratori, dei cittadini e delle cittadine, degli uomini e delle donne consapevoli delle loro potenzialità e unicità esistenziali, permettendo loro di vivere una vita piena e impegnata nel privato e nel sociale. Per farlo bisogna anche aprire le aule alla società stessa consentendo il confronto e il mentoring con personalità estranee alla scuola ma in grado di raccontare e far vedere, attraverso le proprie esperienze, che la scuola e la vita sono momenti di uno stesso comune percorso.

Mentoring e influencer

La vera innovazione è di tipo culturale: mettere al primo posto il concetto che la scuola dovrebbe essere un luogo piacevole e divertente in cui recarsi, e non come viene percepito da tanti studenti, una sorta di centro riabilitativo e punitivo. Dovrebbe essere un luogo in cui nuove classi di docenti, visti come figure di riferimento dell’intera società, possano spingere con la loro passione e la loro competenza di vita studentesse e studenti a guardare con fiducia al proprio futuro.

In questa ottica il docente è un mentore e si comporta come un attore sul palco che attraverso la sua capacità di stare in scena ad ogni lezione deve far vivere a studentesse e studenti la meraviglia per la cultura e le cose del mondo. Ciò sarà possibile solo quando a tale docente verrà riconosciuto il ruolo che merita nella società permettendogli di essere un vero influencer per i propri studenti.

Per farlo la cultura dovrebbe tornare al centro di ogni attività. Riscoprire, per fare un primo esempio, il vero ruolo di agenzia culturale nel servizio della TV pubblica, rinunciando allo share a tutti i costi, dovrebbe essere un punto di partenza irrinunciabile. Sarebbe dunque necessario un vero e proprio “Piano Marshall” per l’educazione alla cultura e quindi al bello.

Una inversione di paradigma

Ovviamente, oltre allo scontato atteggiamento di mentoring nei confronti degli studenti, è necessario impostare un vero e proprio nuovo modello didattico.

È innegabile la necessità di superare vecchi schemi di didattica puramente frontale e, per quanto detto finora, credo sia impellente un’accelerazione nella ricerca di nuove modalità di confronto, ripensando le modalità di condivisione dei saperi con alunne e alunni. So bene che quando si parla di “competenze” non tutti sono d’accordo, anche perché forse tale termine, spesso abusato nell’uso, si presta a forme di cattiva interpretazione in quanto semplicemente contrapposto al termine “conoscenze”.

Onde evitare una non produttiva guerra ideologica, mi limito a dire che, per me, “competenza” significa “saper fare”. Per “saper fare” devi anche avere “conoscenze”. Tuttavia, aggiungo che in generale è inutile avere conoscenze dettagliate di un determinato contesto: quel dettaglio specifico lo andrai a verificare solo nel momento preciso in cui ti servirà. Come si suol dire, “il diavolo è nei dettagli”.



Se proprio vogliamo inserire conoscenze e competenze nello stesso ambito di pertinenza, possiamo semplicemente invertire l’ottica e dire che dalle competenze arriviamo alle conoscenze. A questo punto il pensiero va inevitabilmente a contesti didattici quali la cosiddetta flipped classroom (in italiano “classe capovolta” o “insegnamento capovolto”). Per i non addetti ai lavori, con flipped classrom si intende un metodo didattico che supera la classica organizzazione in lezioni frontali, compiti a casa e verifica in classe. A studentesse e studenti viene invece richiesta la produzione di determinati elaborati e la soluzione di determinati problemi, indicando a volte solo sommariamente gli estremi di realizzazione, per lasciare loro la possibilità di ricercare e sperimentare approcci risolutivi anche personali. Il docente interviene solo in un secondo momento per una verifica e discussione dei vari elaborati.

Sempre in questo ambito rientrano aspetti quali il cooperative learning, ovvero la possibilità per studentesse e studenti di imparare in modalità cooperativa, lavorando in gruppo su determinati contesti operativi.

Riporto un estratto, con il quale mi trovo in assoluta sintonia, di quanto scritto in alcune linee guida per la certificazione delle competenze: “si vuole richiamare l’attenzione sul nuovo costrutto della competenza, che impone alla scuola di ripensare il proprio modo di procedere, suggerendo di utilizzare gli apprendimenti acquisiti nell’ambito delle singole discipline all’interno di un più globale processo di crescita individuale. I singoli contenuti di apprendimento rimangono i mattoni con cui si costruisce la competenza personale. Non ci si può quindi accontentare di accumulare conoscenze, ma occorre trovare il modo di stabilire relazioni tra esse e con il mondo al fine di elaborare soluzioni ai problemi che la vita reale pone quotidianamente.”