Il docente di Filosofia Alberto Cividati e il docente di Storia dell’arte Simone Biazzi illustrano il loro approccio all’analisi dell’opera d’arte, come oggetto che allo stesso tempo possiede un senso e crea nuovi significati.
Metodologie L’opera d’arte è «problema», qualcosa che sta dinanzi (προ + βάλλω = gettare innanzi) e che risulta essere un ostacolo sul cammino solo per coloro che tocca e che si sentono toccati, coinvolti dalla sua forma. Nel confronto con Umberto Eco, Jacques Derrida, Pierangelo Sequeri, Carlo Sini e Walter Benjamin, lo storico dell’arte e l’estetologo prendono consapevolezza del loro ruolo: l’uno rivela e dà contesto ai dettagli, l’altro educa i sensi al gusto del senso.
Il dialogo tra la Storia dell’arte e l’Estetica, nell’approcciarsi all’arte che si è sviluppata tra il XIX e il XXI secolo, prova a rispondere all’esigenza di una concettualizzazione altra rispetto a quanto richiesto dall'esercizio figurativo precedente; tuttavia il nuovo paradigma rivela, a nostro avviso, i limiti di alcune forme descrittive di analisi dell'opera d’arte tout court, poiché queste evitano l’esperienza dell’opera e ne circoscrivono l’indagine alla narrazione del contesto storico e all’esame degli aspetti tecnici, iconografici, iconologici e stilistici. Il punto di contatto tra le due discipline è considerare l’opera d'arte come processo in fieri di una forma sensibile complessa: la costruzione della forma da parte dell’artista e la costruzione dei significati da parte dell’osservatore.
Le opere d’arte sono prodotti culturali che rappresentano qualcosa e per realizzare l’intenzione dell’autore si articolano in un sistema di segni, che rimandano a significati, che si può apprendere solo se si conosce il contesto nel quale il codice espressivo è stato creato. Per questo si può sostenere che alcune opere d’arte hanno senso, perché il segno realizzato dall’artista ha un significato: il segno sta per qualcos’altro. Lo testimoniano numerosi dipinti rinascimentali: le Sacre conversazioni, con la Vergine e il Bambino in trono, circondati dai santi. Ammirando questi capolavori ci si può imbattere in segni che rimandano a concetti quali la nascita o il fiorire di una vita, ma anche il sacrificio e la morte, a sottolineare come il destino di Gesù fosse segnato fin dall’infanzia. Nella Pala di Brera di Piero della Francesca e nella Pala di San Zeno di Andrea Mantegna, ad esempio, compare un uovo di struzzo, simbolo di nuova vita; ma compare anche il corallo rosso, richiamo al sangue e alla passione di Cristo. Talvolta in questa serie di dipinti del XV e del XVI secolo la base del trono richiama la forma di un sarcofago, oppure compaiono dei festoni, simili a quelli che anticamente decoravano gli altari sacrificali o i monumenti funebri: tutti elementi che evocano il tragico epilogo della vita di Gesù.
Il sistema dei segni originario, realizzato nell’intenzione dell’artista, subisce nel corso del tempo smottamenti e dislocazioni; ciò che è in opera nell’opera guadagna un’autonomia, perché vengono meno le condizioni che realizzano l’accordo alla base di un codice espressivo: il patrimonio culturale condiviso cambia, l’autore muore e muoiono anche i destinatari per i quali l’opera inizialmente è stata realizzata. La produzione di significati a partire da un segno diventa «selvaggia». Il braccio cadente che si può notare in alcuni lavori antichi, come le rappresentazioni della morte di Meleagro, è un dettaglio pensato per raffigurare un corpo esanime in modo inequivocabile. Nel corso dei secoli questo segno è comparso in molte opere e si è caricato di nuovi significati. È diventato sinonimo del sacrificio di Cristo, come nella Pietà Vaticana di Michelangelo, nella Pala Baglioni di Raffaello o nella Deposizione di Caravaggio. Poi, sul finire del Settecento, il pittore neoclassico Jacques-Louis David ce lo ha proposto in un’opera laica che celebra un martire contemporaneo: La morte di Marat, dove il politico francese Jean-Paul Marat, assassinato da una rivale, è raffigurato con il braccio destro che cade a peso morto fuori dalla vasca da bagno entro la quale è stato accoltellato, richiamo all’iconografia del Cristo morto, che sacralizza così l’episodio. In Guernica, il capolavoro di Picasso divenuto simbolo della condanna contro ogni forma di violenza, il motivo del braccio cadente torna nell’immagine del bimbo senza vita tra le braccia della madre straziata dal dolore. Dalla disseminazione di un dettaglio si passa alla disseminazione generata da interpretazioni dell’intera opera convincenti ed efficaci, ma non filologicamente fondate. A tal riguardo si possono prendere in considerazione le letture di Martin Heidegger e Jacques Lacan di Un paio di scarpe di Vincent van Gogh. Il filosofo sostiene che le scarpe rivelino il mondo e il senso dell’esistenza di una contadina, mentre lo psicoanalista ne rileva la dimensione dello scarto, del residuo e della morte. Lo storico dell’arte Meyer Schapiro nel suo saggio The Still Life as a Personal Object. A Note on Heidegger and van Gogh del 1968 ha sostenuto invece, facendo riferimento a passi delle lettere dell’artista, che quelle ritratte fossero le scarpe del pittore olandese, tipiche di un uomo che viveva in città.
L’approccio de «l’opera d’arte ha senso» sembra essere parziale, perché pare applicabile principalmente ad alcuni lavori di arte figurativa, e non è esente da criticità. L’opera d’arte si limita a significare un mondo, a descrivere una cultura? Può essere ridotta a semplice informazione e quindi «sostituibile» con una descrizione?
Conoscere l’opera d’arte significa fare esperienza dell’opera nella convinzione che la forma è sostanza; la forma del segno realizza una qualità spirituale, fa essere qualcosa nell’osservatore, proprio come quando si bacia una persona: un bacio non ha un significato perché il gesto corrisponde a un significato stabilito in una determinata civiltà, il bacio è senso, perché il senso consiste in ciò che le persone provano mentre realizzano il gesto. Inoltre quanto ci consegnano i sensi non è la sola informazione percettiva: l’acidità del limone non è solo la percezione del nostro palato durante l’assaggio, la sua qualità spirituale intercetta anche tonalità d’esistenza, legate alle affezioni umane, tanto da poter dire: «Oggi sei una persona acida». La stessa cosa accade con i segni delle opere d’arte.
La produzione tarda di Tiziano Vecellio, segnata da capolavori quali la Punizione di Marsia, veicola un nuovo modo di intendere l’arte della pittura ed è manifestazione di una modernità sconcertante. Negli ultimi anni della sua vita il maestro veneziano stende i colori con forza, in modo energico, attraverso pennellate rapide e pastose, intervenendo persino con le dita per modellare la materia pittorica. In questi lavori aumenta l’intensità drammatica mediante un particolare uso della luce; le forme sembrano scomporsi, come se si stessero disgregando. Entra in gioco il gesto visibile del pittore, l’azione che genera un segno portatore di un atto espressivo potente, nel quale ognuno di noi si può riconoscere. La forma che si sfalda manifesta un’esigenza creativa nuova, capace di smuovere le viscere, come sanno fare tante opere espressioniste o informali del Novecento, dove la tela diviene il supporto sul quale l’artista può lasciare traccia del suo gesto, del suo essere.
La qualità spirituale non è un sapere del segno (il segno sta per qualcos’altro), ma è un sapere che accade grazie al segno (l’opera d’arte fa essere qualcosa nell’osservatore). Decifrando il codice espressivo l’osservatore aumenta le proprie conoscenze, ma queste non spiegano la qualità spirituale, cioè il senso che nasce nell’osservatore perché alcuni «modi» gli dicono qualcosa.
In ogni epoca l’arte transita dentro la vita quotidiana, si trasforma e trasforma la vita delle persone e, quando questo non accade, le opere d’arte diventano il ricordo di un’epoca passata o la decorazione di un ambiente.
Il transito consente all’opera di trovare i suoi destinatari e fa accadere il miracolo della contemporaneità: sensibilità affini dialogano attraverso i secoli e danno luogo a continui e sempre nuovi «Big Bang» della creatività dell’uomo. La geometria e la sintesi formale, ad esempio, possono essere intese come un filo sottile che collega le opere di artisti anche molto distanti nel tempo, come Piero della Francesca e Paul Cézanne, messi in relazione dallo storico dell’arte Roberto Longhi. Nel corso dei secoli sono stati prodotti dipinti caratterizzati proprio da volumi essenziali che sembrano trovare posto in una dimensione ordinata e logica, forse da intendere come una metafora del tentativo umano di comprendere i segreti che si celano dietro la realtà. Si pensi proprio ai dipinti di Piero della Francesca e Cézanne, ma anche a quelli di Paolo Uccello, Georges Seurat e Giorgio Morandi, solo per citarne alcuni. I volumi appaiono semplificati e purificati: queste immagini dalle forme essenziali e dalle atmosfere sospese, dipinte in epoche anche molto distanti, possono provocare il medesimo effetto di straniamento negli osservatori, portandoli oltre la visione ordinaria del reale e offrendo loro la possibilità di assaporare il mistero.
Per proporre una lettura dell'opera d'arte come problema è disponibile in allegato la griglia di analisi dell'opera realizzata dai due autori. Si possono ritrovare i temi dell'interdisciplinarietà nell'apprendimento, della costruzione di significati e anche delle potenzialità dell'opera d'arte come oggetto che educa alla complessità del reale nel contributo di Alberto Cividati Il classico diventa metodo. L'Estetica dell'apprendimento.
Per l'immagine presente nel corpo dell'articolo si ringrazia Federico Filippini che ha rappresentato digitalmente (da sinistra a destra) Pierangelo Sequeri, Umberto Eco, Carlo Sini, Jacques Derrida, Walter Benjamin, e sullo sfondo elementi di opere di Piero della Francesca e di Giorgio Morandi.