In questa intervista Benedetta Barabino ci spiega come portare in classe il linguaggio della CNV, che aiuta a disinnescare i conflitti trovando soluzioni creative e connettendosi ai bisogni propri e altrui.
Metodologie  Gestione della classe Benedetta Barabino, esperta nel trasformare le crisi in occasioni di cambiamento e crescita per individui e comunità, nel 2011 ha incontrato la Comunicazione Nonviolenta di Marshall Rosenberg e da allora porta avanti progetti in cui la CNV è usata come strumento di dialogo e coesione in diversi ambienti. La Comunicazione Nonviolenta ideata da Rosenberg è il risultato di osservazioni da lui fatte negli anni Sessanta e Settanta (anche in contesti di guerra) su situazioni in cui il conflitto portava a una comprensione reciproca e a un risultato creativo, e in cui le relazioni erano basate su connessioni con un livello di onestà molto forte.
Dire, fare, insegnare ha incontrato Benedetta per il suo workshopsulla Comunicazione Nonviolenta presentato nell’edizione 2023 di Edufest: le abbiamo chiesto di approfondire e illustrare per noi le potenzialità della CNV di Marshall Rosenberg, in particolare in contesti scolastici e all’interno delle dinamiche della classe.
È proprio lo stesso interrogativo che ci poniamo io e la mia équipe, che in questo momento operiamo in scuole in una zona della Val Polcevera (Genova) particolarmente affetta da povertà educativa e problematiche sociali. Ha senso parlare di formazione? Per me la CNV è un’esperienza e una pratica ma prima di tutto, come dice Marshall Rosenberg, in realtà quello della CNV è il nostro linguaggio naturale. Se si parte da questa idea, in senso stretto non c’è nessuno da educare o formare: vanno invece creati contesti e situazioni in cui possiamo ricordare e riprendere contatto con questo linguaggio.
Il motivo per cui è complesso recuperarlo è perché incontriamo ostacoli che vengono dalla nostra stessa educazione, dal linguaggio che ormai abbiamo imparato a usare: un linguaggio analitico e basato sul paradigma giusto/sbagliato. Ci rapportiamo cioè agli altri con un sistema di giustizia: anche bambini e bambine, quando litigano, chiedono all’insegnante di essere un giudice, e sul verdetto di innescano dinamiche di frustrazione e invidie. Resta così poco spazio per capire cosa è successo a me e all’altro se tutta l’energia è diretta a difenderci. Va capito invece che il conflitto si attiva per dire “altro”: cosa stiamo esprimendo veramente?
La Comunicazione Nonviolenta trascende invece questo sistema e si pone su un piano diverso, ponendo al centro i bisogni che ci accomunano come esseri umani, cioè i valori universali o il “fuoco” che ci urge dentro. Ogni persona è mossa da questi bisogni e può decidere di esprimerli in diverse modalità, che a volta possono ferire o creare danni. La Comunicazione Nonviolenta consiste però non nel giudicare queste azioni, ma nel comprendere quello che ci sta dietro, per riconnettere noi e l’altro ai valori che ci spingono.
Autoempatia ed empatia, connessione ai propri bisogni e a quelli altrui, sono allora il punto di partenza per lavorare sulla Comunicazione Nonviolenta. Anche nelle scuole coinvolgiamo tutta la comunità classe, insegnanti, studenti e se possibile anche genitori, per costruire insieme degli accordi e creare un rapporto di fiducia, in modo che ognuno senta di potersi esprimere senza essere giudicato e possa mettere in pratica il linguaggio della CNV in ogni situazione. In questo modo non ci sono vincitori e vinti, ma tutti beneficiano di uno spazio in cui poter portare i propri bisogni.
I processi della CNV sono più semplici di quelli da “tribunale” tipici del paradigma della nostra società e che portano a disinnescare velocemente dinamiche conflittuali che possono durare anni. Facciamo un esempio: spesso i docenti trattano in modo differente e danno regole diverse a studenti e studentesse che hanno difficoltà. Se però questa cosa non è decisa insieme, confrontandosi con la classe, negli altri bambini si forma un senso di ingiustizia, e non serve chiedere semplicemente di capire la situazione particolare dei compagni.
In un caso del genere, quello che può servire è mettersi in cerchio tutti insieme e nominare questi problemi, parlarne ad alta voce, anche con i bambini in difficoltà, che si rendono conto benissimo di quello che succede e soffrono nel capire che avere più attenzione attira verso di loro ostilità e gelosie. Nei nostri interventi abbiamo visto spesso come in questo spazio di confronto sono i bambini stessi a fare proposte per aiutare chi ha difficoltà, emergono idee creative e soluzioni per integrare tutti nelle attività di classe. Anche il docente si sente così libero di condividere le preoccupazioni che fino a quel momento non si è dato il diritto di esprimere, secondo un’idea di corresponsabilità del benessere della classe che, seppure in modi diversi, coinvolge tutti.
La transizione al linguaggio della CNV non è facile, soprattutto dopo i periodi di didattica a distanza imposti dalla pandemia, che ha ridotto le occasioni di contatto diretto. Non ci sono ricette valide per tutti e inoltre il paradigma di linguaggio da scardinare è molto forte, soprattutto nelle istituzioni come la scuola. In più i docenti devono dedicare molto tempo a mansioni burocratiche pressanti, mentre l’aspetto relazionale rischia di avere meno spazio e cura.
Per questo il nostro compito è prima di tutto sostenerli nel creare spazi in cui poter esprimere le loro frustrazioni e bisogni. È sempre un accompagnamento alla riscoperta di un linguaggio, non una formazione dall’alto ma un insieme di processi relazionali sempre in movimento: è il motivo per cui noi siamo i primi a lavorare in équipe, per sostenerci a vicenda. Anche i docenti devono quindi lavorare sull’empatia e su come rendere i conflitti momenti di crescita e creatività, per fare poi la stessa esperienza insieme alla classe e sbloccare le risorse che in essa sono già presenti.
Puntiamo quindi, poiché purtroppo dalla società e dalla scuola non arrivano stimoli in questo senso, a costruire una rete di sostegno tra scuole e docenti, che si consolida anche dopo i nostri interventi ed è sempre basata su un forte coinvolgimento in prima persona: sono percorsi che portano a formare comunità dialogiche, che aprono a loro volta strade in forme diverse a seconda dei contesti.
Entrare in empatia con un personaggio è sicuramente una buona pratica perché smonta l’idea del tribunale che dirige il paradigma della nostra società. Quello che è davvero interessante però è la possibilità di trasferimento di questo atteggiamento in contesti reali. Quando guardo un film o leggo un libro, sono connesso fino a un certo punto alla storia che ho davanti.
Se litigo con qualcuno invece sono emotivamente coinvolto e scosso profondamente: in questo caso riesco a entrare in empatia con me stesso, a connettermi ai miei bisogni e fare poi un passo in più per andare verso l’altro? Il punto è sempre la trasformazione del conflitto in un momento in cui smetto di vedere chi ho davanti come un nemico, un antagonista con cui sono in lotta per la soddisfazione dei miei bisogni. È proprio questo il tipo di lavoro che, se fatto fin da piccoli, pone le radici della pace.