Pino Suriano, insegnante e giornalista, ci racconta con ironia la situazione attuale e come i diversi insegnanti stanno reagendo a questo nuovo modo di lavorare.
Esperienze di insegnamento «L’insegnamento è una missione», si sente spesso dire. E – ovviamente – non è vero, come quasi tutti i luoghi comuni. Guai, però, a offrire a una categoria di lavoratori tra le più frustrate, anche per la scarsa considerazione sociale, l’illusione di poterlo dimostrare.
Detto fatto: Coronavirus, sospensione delle attività didattiche, invito a praticare la didattica a distanza. Nel giro di pochi giorni lo slogan della categoria, in pieno accordo con il pathos del dramma nazionale, diventa un poetico Non sarete mai soli, riferito agli alunni. Come? Didattica online a distanza, appunto.
La cronistoria delle reazioni, per la gran parte, più o meno questa:
Ebbene, mai era accaduto prima il fenomeno di un milione di bambini che, tutti insieme, scoprono negli stessi giorni lo stesso giocattolo. È successo per un milione di adulti, con l’aggravante che potranno rimanere a casa per almeno un mese. Piattaforme per videoconferenze come Skype, Zoom, Microsoft Teams e via dicendo sono diventate, nel giro di poco, pane quotidiano. E così da qualche giorno in migliaia di case è scomparsa la telefonata, quella classica: solo videoconferenze con almeno quattro persone e mai senza la condivisione dello schermo.
La fauna insegnante è emersa nella sua diversità di reazioni. Classifichiamo.
Gli infastiditiSono quelli che hanno sempre usato il digitale per la didattica. Nei primi giorni hanno vissuto l’orgoglio della rivincita, poi solo fastidio nel vedere in mano a troppi altri un giocattolo che sentivano come privilegio per pochi. Frase chiave: «Lo faccio da vent’anni.»
I meravigliatiFrase chiave: «Mamma mia, guardate cosa ho scoperto qui!». Tendenzialmente hanno appena scoperto che si possono guardare dei video su un social network chiamato YouTube.
Gli originaliFrase chiave: «State usando tutti questa piattaforma? Va meglio l’altra.»
I benaltristiChi scrive, lo dichiara, fa parte di questa categoria. Il punto non è il mezzo ma il metodo. Conta la persona, non la macchina. Il tipo di approccio è già improntato sull’autonomia di ricerca degli studenti.
Gli impacciatiQuelli che proprio non possono. Non hanno un PC o non lo sanno usare, e devono chiamare figli e nipoti anche solo per accenderlo. Frase chiave: «Non ho tempo da perdere con queste cose.»
Gli esaltatiSono loro i più temuti dagli studenti in questi giorni, e più avanti si comprenderà il perché. Frase chiave: «Oggi ho provato questa App, e poi quest’altra, e poi quest’altra ancora!», ma anche: «Funziona benissimooooo!».
I terrorizzatiFrase chiave: «E se sbaglio a dire qualcosa? E se mi ascoltano i genitori durante la videolezione?»
I reticentiSono gli impediti o i terrorizzati di sopra, che per non dire di essere impediti o terrorizzati dicono, con qualche legge alla mano, di non essere obbligati.
Ovviamente la vicenda va osservata anche dall’altro punto di vista, quello al momento più razionale, quello degli studenti. «Prof, ma per mandarmi una foto mi avete creato una Classroom? Non bastava WhatsApp?». Domanda sacrosanta, la cui risposta è stata giustamente: «Pensa a studiare!». La risposta giustamente non data, ma che sarebbe stata veritiera: «Ma perché vuoi toglierci il gusto di giocare con una cosa che abbiamo appena scoperto?»
Il fatto è che dopo venti giorni gli studenti non ce la fanno più a registrarsi su almeno dieci diverse piattaforme al giorno per assecondare l’entusiasmo di scoperta dei loro insegnanti (si comprende quindi qui il terrore per gli Esaltati), i quali oggi – solo oggi – stanno scoprendo scandalizzati che i ragazzi usano solo lo smartphone, che per la gran parte non hanno un computer a casa e che non sanno cosa sia la (per loro fondamentale!) formattazione di Word. «Ma non erano la generazione digitale?».
«Comunque sono entusiasti!», scrivono alcuni nelle chat, dopo le lezioni a distanza. Non immaginano con quanto “leggerissimo” distacco un adolescente sappia confermare «Che bello, che figata!» a un adulto che gli ha appena chiesto «Ma non è proprio bello? Non è proprio una figata?», senza davvero percepire l’oggetto in questione né come bello, né come figata.
C’era un tempo, prima del Coronavirus, in cui il più grande pericolo, nel mondo della scuola, erano i gruppi WhatsApp dei genitori. Ora non più.
Eppure, in questa folle corsa alla nuova scoperta, anche attraverso il filtro di evanescenti schermi fino a ieri troppo demonizzati, sta di nuovo accadendo lei, terra di incontro vitale, fisico o distante, tra giovani e adulti che si ritrovano a portare insieme il bello (e il peso) della vita: la scuola.
E mai, mai come questa volta abbiamo visto con chiarezza che la scuola non ha al centro un luogo, mura, o testi, ma una relazione. Anzi, È una relazione. E tutto (libri, schermi, smartphone, compiti, addirittura la conoscenza) ne sono mezzo e non fine. No, la scuola non si è fermata.
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