Dire, fare, insegnare
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Scuola e “strascuola”. Le periferie della didattica

Il docente Michele Canalini ha condiviso con noi una riflessione sulla differenza tra i modelli di scuola cittadina e scuola provinciale, sottolineando le potenzialità delle periferie educative già esplorate da don Milani.

Problematiche scolastiche 
13 giugno 2023 di: Michele Canalini
copertina

Poco meno di dieci anni fa, come prima prova dell’Esame di Stato veniva proposta, tra le altre, una traccia a firma dell’architetto genovese Renzo Piano e tratta da un suo articolo per “Il Sole 24 Ore”: un testo incentrato sul malessere sociale, rispecchiato dallo stato di degrado delle periferie urbane in Italia.

Un’analisi lucida e oggettiva, in cui l’architetto di fama mondiale insisteva sul concetto di “rammendo” per auspicare un intervento di recupero di queste aree così fragili e talvolta distanti da noi: “Siamo un Paese straordinario e bellissimo, ma allo stesso tempo molto fragile. È fragile il paesaggio e sono fragili le città, in particolare le periferie dove nessuno ha speso tempo e denaro per far manutenzione. Ma sono proprio le periferie la città del futuro, quella dove si concentra l’energia umana e quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. […] Spesso alla parola ‘periferia’ si associa il termine degrado. Mi chiedo: questo vogliamo lasciare in eredità?».

Se applicassimo lo stesso metro di giudizio alle periferie scolastiche, non credo che il giudizio di fondo cambierebbe più di tanto. Perché sempre di bellezza ci occupiamo: è la bellezza delle migliori energie del nostro paese, ovvero i giovani. A pensarci bene, le analogie tra circondari metropolitani e sobborghi scolastici sono più sorprendenti di quanto ci si immagini. E non intendo, in questo confronto, rifermi allo stato di salute degli edifici che ospitano le strutture dell’istruzione. Il mio discorso è proprio incentrato su centro e periferia didattica.

Quando oggi parliamo di scuola italiana, l’opinione corrente è quella di un'istituzione uniforme e con caratteristiche comuni un po’ in tutto il territorio nazionale, sebbene sia caratterizzata trasversalmente da molte criticità. Ma una differenza a cui molti non pensano è quella tra una scuola cittadina e una scuola provinciale dislocata in aree lontane e magari disagiate, non necessariamente di stretta periferia urbana. A un’analisi più attenta, scuola cittadina e scuola provinciale sembrano cioè non corrispondere alla stessa realtà, bensì a due istituzioni tra loro differenti, per quanto parallele.



La prima, infatti, è quella scuola di dimensione prevalentemente urbana e che di solito fa da polo catalizzatore delle attenzioni e pure delle critiche, giuste o meno, di ogni schieramento politico o di qualsiasi benpensante, per questo assurgendo a unico paradigma dell'istruzione in Italia. La seconda invece è quel tipo di scuola, appunto provinciale o periferica, che si trova nelle aree di montagna, nelle vallate distanti dai grandi conglomerati abitativi oppure nelle isole. Proprio questa scuola non ha quasi mai l'onore di essere al centro della ribalta nazionale.

Questo per svariati motivi: l’insufficiente visibilità mediatica; la reticenza dello stesso corpo insegnante di ricevere un incarico in posti “così sperduti”; lo spopolamento di tali zone periferiche che pagano la mancanza di interessi e di investimenti delle classi politiche, siano esse locali o nazionali, e quindi anche il numero sempre più limitato di ragazzi che possono e o desiderano vivere in queste aree, sempre più sprovviste di qualsivoglia forma di attrattiva. A ciò si aggiunge il fenomeno. Poca frequentazione, dunque poco interesse.

Tuttavia, anche a fronte di queste tendenze, le scuole cosiddette “provinciali” sono ancora tante da un punto di vista numerico, per il dato innegabile della conformazione geomorfologica della nostra penisola e per la nascita e la dislocazione di innumerevoli borghi, paesi e contrade. Che cosa offriamo a tutti quei ragazzi che frequentano le scuole di queste realtà periferiche? O, per riprendere l’assunto iniziale di Renzo Piano, cosa vogliamo lasciare a loro come eredità?

Le mie domande riflettono anche la mia esperienza da docente che ha insegnato in alcune scuole di aree bellissime ma lontane dal grande dibattito: il Montefeltro marchigiano, il Cadore veneto e la Lunigiana a cavallo di Toscana e Liguria. Queste stesse domande sollevano un problema non di poco conto e ai più sconosciuto, se non addirittura trascurato. Tuttavia, è bene non dimenticarlo: spesso le rivoluzioni cominciano dalle periferie, dalle campagne, da quei luoghi emarginati dove si rifugiano “i reietti” della nostra istruzione.

“Dopo l’istituzione della scuola media a Vicchio arrivarono a Barbiana anche i ragazzi di paese. Tutti bocciati naturalmente. Apparentemente il problema della timidezza per loro non esisteva. Ma erano contorti in altre cose. Per esempio consideravano il gioco e le vacanze un diritto, la scuola un sacrificio. Non avevano mai sentito dire che a scuola si va per imparare e che andarci è un privilegio.” Chi scrive è don Lorenzo Milani e la sua testimonianza proviene proprio da un paese: Barbiana, a nord-est del capoluogo toscano, dove la scuola era frequentata prima solo dai ragazzi “del luogo”, poi anche dai bocciati della scuola media del paese vicino.

L’esilio e le condizioni materiali di estrema povertà di quella periferia fiorentina (mancanza di acqua corrente, di luce elettrica, inesistenza di collegamenti) non avevano però fiaccato lo spirito di don Milani, che partì dall’insegnamento ai figli di contadini e ai contadini stessi per contestare l’istruzione nazionale, ovvero quella “scuola dell’obbligo” che, attraverso la perpetuazione del nozionismo fine a stesso, alimentava un sistema di potere che era il riflesso del sistema di classe. Solo i più ricchi, e di conseguenza i loro figli, potevano avere accesso agli strumenti del potere, trasformando gli altri nei reietti di turno, esclusi dalla vera partecipazione politica.

Per cambiare le cose bisogna invece dare a tutti l’istruzione in proporzione ai dati di partenza di ciascun individuo, ben oltre quegli svantaggi sociali ed economici che la nascita assegna a un allievo, già a partire dalla collocazione geografica: città o paese. Che poi l’insegnamento di don Milani abbia avuto effetto di stimolo nell’esplosione della contestazione studentesca del Sessantotto, è risaputo. Ma che la sua lezione abbia lasciato un effetto duraturo e proficuo nella nostra istruzione italiana, questo è meno certo. Resta però il fatto, indiscutibile, che oggi la divisione tra città e periferia è ancora marcata.



La mia esperienza, assunta qui a testimonianza, lo conferma: il grande dibattito pubblico raramente si è soffermato sulle piccole ma innumerevoli realtà paesane della nostra pedagogia per capire realmente quale sia il reale bisogno di questi ragazzi e per intercettarne il malessere generazionale. Al di là di singoli episodi o della occasionalità di qualche evento organizzato, quasi mai gli studenti si sono sentiti parte integrante di una discussione trasversale su richieste, necessità e aspirazioni di una classe di adolescenti chiamati un domani a ricoprire ruoli importanti. Proprio per questo mi è venuta mente una vecchia distinzione letteraria: quella tra un movimento che voleva sprovincializzare la cultura italiana, che è ricordato come “Stracittà”, e il suo opposto, cioè “Strapaese”.

Intento prioritario del primo era quello di avvicinare la cultura italiana ai grandi movimenti europei e, nel farlo, si avvaleva delle pagine di “Novecento”, la rivista militante di Massimo Bontempelli e di altri intellettuali di chiari orientamenti cosmopoliti. Come risposta a “Stracittà”, nacque in seguito il movimento di “Strapaese”, legato alle pagine delle riviste “Il selvaggio” di Mino Maccari e “L’Italiano” di Leo Longanesi, e che aveva l’intento di tramandare le tradizioni paesane e nazionali dell’Italia.

Similmente, in contrapposizione all’interesse dominante di una certa pedagogia nazionale, e a una scuola che si mostra ancora oggi egemonica nella sua prospettiva metropolitana, vorrei quindi fare riferimento a una “strascuola” di spiccata dimensione paesana e periferica, da non dimenticare e non trascurare. Perché gli studenti sono tutti uguali in un’ottica didattica, ma non si presentano tutti con le stesse condizioni nelle fasi dell’apprendimento. Per questo, come diceva proprio don Milani, non bisogna confondere la “timidezza” con l’acquiescenza: “Più tardi ho creduto che la timidezza fosse il male dei montanari. I contadini del piano mi parevano sicuri di sé. Gli operai poi non se ne parla. Ora ho visto che lasciano ai figli di papà tutti i posti di responsabilità nei partiti e tutti i seggi in parlamento. Dunque son come noi. E la timidezza dei poveri è un mistero più antico. Non glielo so spiegare io che ci son dentro. Forse non è viltà né eroismo. È solo mancanza di prepotenza.”

Ancora oggi, purtroppo, la “timidezza dei poveri” della “strascuola” resta un mistero, ma privato della sua accezione di ricchezza spirituale per restare soltanto un’incognita al cui svelamento nessuno sembra essere realmente interessato.

Bibliografia

  • De Vecchi Giorgio, Giovannetti Giorgio (a cura di), La nostra avventura, Il Novecento e la globalizzazione, Vol. 3, Bruno Mondadori Editore, Milano, 2016.
  • Milani Lorenzo, Lettera a una professoressa, Scuola di Barbiana (a cura di), Libreria editrice fiorentina, Firenze, 1967.
  • Piano Renzo, Il rammendo delle periferie, «Il Sole 24 ore», 26 gennaio 2014.