Giovanni Nicotra ci racconta un laboratorio scientifico svolto con la sua quinta liceo e rimasto interrotto con la fine dell'anno, ma che ha insegnato a docente e studenti la bellezza di ragionare fianco a fianco.
Secondaria  Esperienze di insegnamento Quello che segue è il racconto di un pezzo di vita di una quinta liceo scientifico. È contemporaneamente la descrizione di un esperimento avviato e mai concluso e dell’affacciarsi di un gruppo di ragazzi al mondo della ricerca, con le sue prassi, i suoi molteplici tentativi, a volte risolutivi, molte altre volte fallimentari. Ed è il racconto del consolidamento definitivo del rapporto tra questi ragazzi e il loro insegnante.
Un nodo fondamentale del programma di Scienze di quinta liceo è l’evoluzione: dovendo partire da Darwin e arrivare alle scoperte della Biologia Evolutiva dello Sviluppo, passando per la Genetica di Popolazioni e offrendo molteplici agganci ad altre materie (in particolare Filosofia e Letteratura), esso richiede una buona fetta del tempo a disposizione. Un altro fondamentale aspetto è l’attitudine tipica delle Scienze, indipendentemente dal momento del percorso quinquennale nel quale ci si trova, di veicolare concetti e fenomeni anche attraverso esperienze pratiche, cioè i laboratori. Date tali premesse, allestire un esperimento che mostrasse empiricamente i meccanismi dell’evoluzione è stato, per quasi tutto l’anno, un mio cruccio condiviso con la classe.
La classe con cui ho intrapreso il percorso sperimentale è una quinta scientifico (mentre scrivo, questi ragazzi si accingono a sostenere le prove dell’Esame di Stato ed entro breve non saranno più la mia quinta scientifico) ed è un gruppo di ragazzi con i quali ho condotto altri esperimenti (questo presentato su Dire, fare, insegnare, per esempio, è poi proseguito con altri step, che hanno coinvolto una studentessa, Giuseppe Di Pellegrino, ordinario di Neuroscienze all’Università di Bologna, e i colleghi di Filosofia e Italiano della classe). Si tratta di persone curiose e con le quali, negli anni, si è instaurato un rapporto di fiducia. Soprattutto, con l’indole di chi ama entrare nelle cose ed è disposto a lasciarsi guidare. Questo voleva essere il “grande esperimento di quinta”, una sorta di testamento didattico.
In questo esperimento, nostra intenzione era quella di creare le condizioni affinché una popolazione di organismi viventi, sottoposta a pressioni ambientali anomale, sviluppasse caratteristiche fisiologiche che fossero trasmissibili geneticamente.
La prima verifica della riuscita dell’esperimento sarebbe stata la constatazione che, dopo alcune generazioni, le mutazioni indotte nelle popolazioni sarebbero divenute stabili e indipendenti dalla presenza delle condizioni ambientali che le avevano generate. Una verifica più accurata, invece, si poteva ottenere proseguendo l’esperimento e mettendo a confronto due popolazioni, quella mutata e quella no. Se, dopo diverse generazioni, si fossero poste entrambe le popolazioni nelle stesse condizioni di stress ambientale, la popolazione mutata avrebbe dovuto soppiantare quella di controllo e dimostrare uno dei meccanismi base dell’evoluzione.
Una sorta di simulazione della teoria degli Equilibri Punteggiati, secondo la quale una salto evolutivo si verifica quando la popolazione principale e più diffusa di una certa specie (quella, per intenderci, che lascia fossili nel tempo a seguire, a causa dell’abbondanza degli individui che ne fanno parte) viene soppiantata da una popolazione molto più ridotta e che viveva confinata ai margini dell’areale della popolazione dalla quale deriva (troppo ridotta, numericamente, per lasciare significative tracce fossili). Questo ribaltamento nella diffusione numerica delle due popolazioni (che si avviano ad essere due specie diverse, ma legate da una stretta parentela) è dovuto al fatto che le condizioni ambientali, magari dopo centinaia di migliaia di anni, sono mutate e la popolazione peripatrica si trova, casualmente, meglio adattata alle nuove condizioni. Il processo, molto lento nella prospettiva umana, è molto rapido dal punto di vista paleontologico, tanto che nella diffusione dei fossili delle due specie imparentate si registra un rapido cambiamento: la specie precedente scompare e, quasi improvvisamente, compare la nuova.
Il primo passo è stato quello di individuare l’organismo ideale per il nostro esperimento. La prima idea è stata quella di lavorare sull’erba di prato (Festuca arundinacea e Lolium perenne), allestire quattro grandi vasi nei quali farla crescere e sottoporre a tagli periodici e selettivi le quattro piccole popolazioni: nel primo vaso avremmo operato tagli ad un’altezza fissa di 10 cm, nel secondo ad un’altezza di 15 cm e nel terzo di 20 cm. Il quarto vaso costituiva il gruppo di controllo e sarebbe stato lasciato crescere spontaneamente, cioè senza tagli. Ogni vaso era dotato di una riga da disegno piantata nella terra per poter controllare la crescita delle piante.
Secondo le nostre aspettative, dopo un periodo sufficientemente lungo di tagli ripetuti, le popolazioni avrebbero cominciato a generare figli sotto l’altezza del taglio del vaso di appartenenza, dimostrando come l’ambiente sia in grado di produrre una selezione sulle popolazioni con effetto sulle generazioni future. Dopo un esaltante sessione di laboratorio nella quale, divisi per gruppi, abbiamo allestito i vasi (cassette da frutta con rivestimento impermeabile forato sul fondo e con argilla espansa alla base e terriccio misto a sabbia), siamo ritornati in classe con le mani sporche di terra e felici di un nuovo compito pratico. Nei giorni a seguire, mentre ascoltavano le lezioni, i ragazzi con la coda dell’occhio controllavano le quattro cassette, nella valida attesa di distrarsi per segnalare le prime novità.
Abbiamo atteso invano per due settimane e più lo spuntare dei germogli. Per qualche motivo l’erba non è germinata. Il suo ciclo vitale, ad ogni modo è troppo lungo per i tempi di una materia scolastica e noi eravamo già nel secondo quadrimestre. Non era proponibile ripetere l’operazione con altri semi. Sono spuntati, invece, dei funghi. Di quelli spontanei, esili e con delicate lamelle. Ci siamo subito adoperati per convertire il nostro esperimento utilizzando quegli inattesi organismi. È bastata una settimana perché i nostri ragionamenti si rivelassero vani: quel tipo di fungo nasce come dal nulla e nel nulla scompare nel giro di pochi giorni.
Non ci siamo dati per vinti, anche se ormai la primavera lasciava intravvedere come sarebbe stata l’estate e la fine dell’anno scolastico diventava più incombente. Ci siamo concentrati maggiormente sull’organismo ideale per questo tipo di esperimento: la scelta è ricaduta sul lievito (Saccharomyces cerevisiae), perché più facile da maneggiare e con cicli vitali notevolmente più rapidi. Siamo diventati, quindi, panificatori. Lo stress ambientale che abbiamo indotto è stato il grado di salinità dell’impasto.
I lieviti sono cellule e l’effetto del sale, su una generica cellula, è quello di provocare l’osmosi e impedirne la crescita o indurne, in casi estremi, la morte. Si trattava di individuare quella quantità di sale non così eccessiva da impedire la crescita dei lieviti, ma nemmeno così lieve da non indurre effetti misurabili sulla popolazione sotto esperimento. Il nostro nuovo esperimento avrebbe avuto lo scopo di sviluppare una popolazione geneticamente resistente a un grado di salinità al limite delle possibilità di crescita dei lieviti. Una volta ottenuto il nuovo ceppo di cellule, lo avremmo potuto testare, a distanza di tempo, in un ambiente con elevato grado di salinità insieme alla popolazione standard e, in qualche modo, osservare come il nuovo ceppo avrebbe occupato l’intero spazio vitale a scapito del ceppo standard.
Per due settimane abbiamo lavorato su diverse proporzioni di farina, sale e acqua, individuando la percentuale ideale di sale rispetto alla farina, cioè l’8%. La vitalità delle popolazioni sottoposte alle diverse condizioni di salinità è stata misurata in termini di aumento di volume dell’impasto. Ogni gruppo di lieviti è stato allevato in becher da 200 ml e, nella parte finale della fase di allevamento, mantenevamo quattro becher con salinità, rispettivamente dello 0 (gruppo di controllo), del 2, del 4 e dell’8%.
In quel periodo, all’inizio di ogni mia lezione, un gruppo di due o tre alunni si dedicava ai quattro impasti, massaggiandoli con cura: ascoltavano la lezione mentre con le mani aggiungevano la quantità di acqua, farina e sale necessaria a mantenere viva la popolazione e con il previsto grado di salinità. Al termine della lezione, mentre io mi avvicendavo con l’insegnate dell’ora successiva, i tre alunni uscivano insieme a me dall’aula, esponendo il dorso delle mani bianche di farina come fa un chirurgo in procinto di operare, e con l’espressione compiaciuta di chi ha fatto ciò che normalmente a suola non si fa, ma che in quell’occasione era perfettamente valido.
E poi è arrivato il 15 maggio. La data fatidica in cui è previsto che finisca, per la quinta, il percorso dell’anno. Oltretutto, la gita scolastica era programmata nella terza settimana di maggio. Il tempo è scaduto prima che fossimo riusciti a verificare la correttezza delle nostre ipotesi. Del resto, la ricerca (o la vita) è così. Procede per tentativi e non è detto che si arrivi in fondo nei tempi desiderati. Quello che rimane – solido e immutabile – è il modo di precedere, così semplice e rigoroso fin dai tempi di Galileo e lo spirito che lo guida, cioè la curiosità che rende tale uno scienziato.
Anche se non so se mi leggeranno, voglio dedicare questo anno di esperimento inconcluso, fallito nell’attesa dei risultati, ma riuscito nella ricerca del metodo, alla 5AS dell’anno scolastico 2024/25. Ci siamo trovati stranamente allineati dalla stessa parte, insegnante e alunni, a causa dello sguardo rivolto nella stessa direzione, nello stesso tentativo di dimostrare l’evoluzione con un esperimento. Un tentativo forse eccessivo, che ci ha negato un risultato da raccontare, ma ci ha anche regalato la soddisfazione di aver vissuto da scienziati. Personalmente, mi ha concesso la bellezza di ragionare con i miei alunni nell’intento di superare ogni nuovo inconveniente e la bellezza di leggere in loro la fiducia che ciò che facevamo era buono.
Per inciso, il tentativo rimane valido, a mio parere, e lascia aperta la domanda su come osservare i meccanismi dell’evoluzione attraverso un modello semplificato. E se possibile, vorrei che questa incompiuta somma di tentativi fosse raccolta da qualche collega come la bottiglia di un naufrago per dargli una nuova vita.