Claudio Giunta, professore di Letteratura italiana all’università di Trento, ci racconta il suo punto di vista sull’insegnamento della letteratura e sui cambiamenti in atto nell'educazione umanistica.
Secondaria  Grandi insegnanti Dire, fare, insegnare ha chiesto al professor Claudio Giunta - docente di Letteratura italiana all'università di Trento e, tra le altre cose, autore di un'antologia per le scuole superiori - di raccontarci che cosa pensa del futuro dell’educazione umanistica, dell’uso degli strumenti digitali a scuola e di spiegarci quali cambiamenti auspica per il canone letterario scolastico.
Lei ha scritto un libro dal titolo E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell'istruzione umanistica. Qual è il futuro dell’istruzione umanistica?
Ah che domanda spiritosa! Non ne ho idea. Nel libro cerco di dire quello che vedo, nella scuola e nell’università (conosco la scuola perché ci vado spesso a parlare dei miei manuali di letteratura e a fare delle lezioni quando mi cercano: ma è una conoscenza di seconda mano, fare gli insegnanti è un’altra cosa; invece l’università la conosco abbastanza bene). Alla fine è un quadro più nero che rosa. Perché mi pare che il mondo vada in una direzione diversa (non dico migliore, forse peggiore, ma diversa). Perché ho l’impressione che anche nelle scuole e nelle università si comunichi spesso un’educazione umanistica che non educa davvero a niente, né alla lettura di libri veri né all’esercizio del pensiero né alla comprensione storica dei fenomeni; e perché il sistema dell’istruzione italiano mi pare immodificabile, irriformabile, mentre di modifiche e riforme avrebbe bisogno. Ma io sono pessimista di natura: le cose che ho appena detto si sono dette sempre, quindi può darsi che anch’io mi sbagli, e che un radioso futuro attenda i paradigmi greci e latini, la narrativa russa dell’Ottocento e la cronachistica medievale. Ma non credo. Credo che l’etichetta ‘educazione umanistica’ finirà per essere appiccicata su un contenitore nel quale quei vecchi contenuti avranno sempre meno spazio, e sempre più ne avranno invece cose come la socializzazione, gli audiovisivi, le lingue straniere, l’autoespressione. In realtà sta già avvenendo. E potrebbe non essere un male, dopotutto (non sono ironico).
Entriamo in aula. Esistono strumenti nuovi per l’insegnamento della letteratura nelle scuole?
Direi che esistono, certo, ma direi che non sono così importanti. O meglio: sarebbe bene non farli diventare troppo importanti. Voglio dire, è ovvio che avere in classe uno schermo collegato con l’infinito può essere utile, se lo si sa usare. Uno può mostrare dei testi anziché dettarli, può far vedere delle immagini, dei video istruttivi, le videolezioni di persone intelligenti. Trentacinque anni fa, alle medie, io avevo il quaderno e il libro di testo, nient’altro. E quando la professoressa di musica ci chiese di trovare una foto del colonnato di San Pietro e di incollarla sul quaderno (né io né i miei compagni avevamo idea di come fosse fatto), io mi nascosi delle forbici in tasca, andai nella biblioteca di quartiere e tagliai una foto in bianco e nero dell’Enciclopedia Motta. Oggi le cose sono un po’ più facili grazie appunto alla rete, alle immagini ubique, ai media ecc.
Però, dicevo, non credo che la sostanza dell’insegnamento debba o possa cambiare. Una pagina dei Promessi sposi è una pagina dei Promessi sposi, la Cappella Sistina è la Cappella Sistina, la storia della Seconda guerra mondiale è la storia della Seconda guerra mondiale. Per impadronirsi di questi argomenti, di questi prodotti dello spirito (anche la storia della Seconda guerra mondiale lo è), bisogna applicarsi, leggere, riflettere. Se non lo si fa, specie negli anni della formazione, la rete non serve a niente.
Quanto all’online in classe, agli ebook eccetera, direi che è tutta roba inutile, anzi alla fine dannosa. C’è questa legge (credo: non ho verificato) che dice che una certa percentuale di pagine di un manuale devono essere ‘fruibili online’, e quando ho fatto il mio manuale ho obbedito alla legge. Ma a scuola sarebbe bene dare ai ragazzi dei libri fatti di carta, di misura non sesquipedale, perché non si perdano in un mare di informazioni, spunti, link e via dicendo. Poche cose ben fatte, tangibili. Non tante cose che si accendono e poi si spengono. Del resto, nessuno si ricorderà con affetto del suo professore di italiano perché “usava bene i nuovi strumenti della didattica”. Si ricordano con affetto i propri professori perché erano intelligenti, colti, e soprattutto (soprattutto) gentili. Le virtù importanti sono queste, i “nuovi strumenti” contano molto poco, al paragone. Dovremmo tutti parlare d’altro.
Lei ha un’esperienza diretta con le antologie scolastiche: c’è qualcosa che vorrebbe veder aggiunto al canone “classico”?
Oh, potrei scrivere per ore, davvero. Potrei farmi venire i crampi alle mani. Credo che il canone “classico” (immagino che chiamiamo “classico” la trafila Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Tasso … Montale, Calvino) andrebbe cambiato radicalmente, perché a scuola – specie nelle scuole che non sono il liceo classico – mi pare quasi che sia dannoso; mi pare che alla fine (ripeto: non parlo del classico) scoraggi la lettura. La gran parte degli studenti, semplicemente, non ha bisogno di Guido Cavalcanti. Come cambiare questo canone sarebbe un lungo discorso: ma io sarei prontissimo intanto a grandi rinunce, rinunce che molti, immagino, non vorrebbero fare. Ma io trovo per esempio sbagliato che si studi Dante per tre anni, o che si leggano I promessi sposia quindici anni, o che si continui a far leggere soprattutto poesia a ragazzi che avrebbero bisogno di avere per esempio buoni modelli di prosa argomentativa. Ecco, rispondo alla sua domanda: vorrei che si aggiungessero (io l’ho fatto nel mio manuale) delle belle pagine saggistiche, dei testi che insegnassero come si argomenta un’opinione. Dentro Salvemini, diciamo, e fuori Ungaretti (mi rendo conto, mi rendo conto…). Oppure più Zibaldone e meno Canti. E poi sì, più Novecento, cioè più libri scritti nell’ultimo secolo o due secoli. Ma non i libri che passano da Fazio la domenica sera, non l’ultimo premio Strega. Libri seri, belli. Abbiamo fatto una lista, io e Gianluigi Simonetti, in un articolo che si chiama Questi li avete letti?, sul sito di «Internazionale».
Nel suo libro E se non fosse la buona battaglia? lei si interroga su come insegnare agli studenti a scrivere meglio. Una delle possibili soluzioni è avvicinarli alla saggistica “non letteraria”. Per quale motivo? Ci può consigliare qualche autore o autrice da portare in classe?
Il motivo l’ho detto sopra. Nessuno di loro scriverà poesie (speriamo), pochi faranno teatro, pochissimi scriveranno romanzi. Tutti quanti dovranno scrivere un’email, una lettera al capufficio, una dichiarazione dei redditi, qualcuno un articolo scientifico. Che imparino come si argomenta un’opinione, cioè come si scrive in maniera chiara, elegante, magari spiritosa (questa cosa così estranea agli scriventi italiani: lo spirito, inteso anche come humour, leggerezza). Autori raccomandabili? Nel mio manuale ne ho messi un po’, alcuni semplici e diretti, altri più complicati. Bisogna vedere chi sono gli studenti, ma la mia esperienza in generale è buona – se si è ignoranti e intelligenti (come sono in genere i ragazzi a scuola) si può non apprezzare i Sepolcri di Foscolo, ma si capisce se la pagina del saggio che stiamo leggendo dice una cosa giusta oppure no, e se la esprime in modo efficace. Leopardi, Pasquale Villari, Salvemini, Gramsci, Brancati, la Ginzburg delle Piccole virtù, Flaiano, Savinio, Nicola Chiaromonte, Uscita di sicurezza di Silone, I sommersi e i salvati di Primo Levi. Ma tanti altri. Mi asterrei dai vivi: sennò si finisce per prendere sul serio i “giornalistucoli” che si vedono in televisione e che scrivono un libro al mese. Mentre porterei in classe delle pagine di Orwell saggista per esempio, o tanta altra saggistica anglosassone.
Il concetto di letteratura secondo lei si può espandere anche ad altri media? Come si può presentare in classe in modo efficace un contenuto diverso da un brano letterario?
No, non bisogna espandere niente. Bisogna constatare – ed è facile perché gli studenti lo sanno già – che nell’ultimo secolo ci sono nuove arti (non direi media) che veicolano forme e contenuti artistici al pari (quando va bene) della letteratura. E quindi una persona colta e intelligente deve frequentare la musica (anche leggera), la TV, il cinema. Nel mio manuale ho provato a rispondere alla seconda domanda. Secondo me se si parla di cinema non conta molto fare la storia del cinema (anche perché chi ha le competenze per farla?), semmai far capire come si parla di un film, che cos’è una sceneggiatura, che mestiere fa il montatore eccetera. E se si parla di canzoni non serve fare la storia delle canzoni da Modugno a Marracash (anche se volendo…), serve capire com’è fatta una canzone, com’è cambiato il genere nell’ultimo mezzo secolo: insomma riflettere insieme su questi oggetti così quotidiani, applicare l’intelligenza e il metodo della scuola a questi oggetti artistici non scolastici. Ma senza esagerare: a scuola si va per imparare cos’ha scritto Dante e cosa pensava Kant della vita, non per vedere la TV o per parlare di TikTok.