Dire, fare, insegnare
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L'etologia applicata alla classe e lo scontro dei ruoli. Prosegue la riflessione di Piero Bonanni

Continua in questo articolo la riflessione iniziata da Piero Bonanni, docente di latino e greco a Tivoli, nel suo ultimo articolo per Dire, fare, insegnare.

Gestione della classe  Grandi insegnanti 
27 novembre 2020 di: Piero Bonanni
copertina

Nella seconda tappa del ragionamento iniziato la scorsa settimana con l'articolo Un salto indietro. Ruoli, contesti e dinamiche di gruppo dalla preistoria a oggi Piero Bonanni si sofferma sull’applicazione di una prospettiva scientifica e comportamentale alle dinamiche interne alla classe e sulla separazione dei ruoli pubblici e privati di ciascuno dei membri di una comunità.



L’analisi delle dinamiche interne alla classe è spesso lasciata alla sensazione e all’interpretazione di ogni docente. Del resto, come pretendere un approccio scientifico sul comportamento a scuola, se quel che sappiamo sui ruoli proviene da studi su soggetti non umani? Dall’etologia comparata possiamo trarre i suggerimenti per gestire la “comunità” della classe sulla base della parziale prevedibilità delle scelte di ruolo che piovono dal dirigente sulla “comunità” del personale scolastico e irrigano, con esiti spesso infausti, la comunità della classe. Capire quali possano essere i ruoli interpretati all’interno delle dinamiche di gruppo, per valutare e valorizzare le leadership delle comunità scolastiche o per vivere al meglio la propria attività professionale, è il motivo centrale dello studio etologico degli ambienti lavorativi: la scuola, come comunità coerente, è il luogo ideale per tale approccio. Mancando una bibliografia specifica, farò riferimento alle esperienze e agli “esperimenti” scolastici che mi hanno reso il lavoro ancor più godibile e interessante in questi ultimi 15 anni. 

Il luogo di lavoro costituisce l’habitat di gruppi molto complessi, in cui le abilità tecniche, le conoscenze e le predisposizioni caratteriali subiscono una forte pressione: per funzionare sul luogo di lavoro, per avere “successo culturale”, molto raramente possiamo interpretare lo stesso ruolo che rivestiamo nella comunità familiare, sarebbe quasi innaturale del resto affrontare la vita pubblica nel ruolo che abbiamo in quella privata. Anzi, sono sempre più convinto che un irrigidimento in tal senso, una mancanza di adattamento ai ruoli nuovi, di gruppo in gruppo, sia il segno di un comportamento profondamente deviante: posso essere un genitore molto tenero e comprensivo, perché questo ruolo funziona nel mio gruppo familiare, ma tale orientamento può non avere successo nel mio gruppo-classe; viceversa, posso essere un padre rigoroso, distaccato e magari deluso dall’esperienza della genitorialità, ma può non essere questo il volto da presentare con successo nel mio gruppo-classe. Vita pubblica e vita privata, dal punto di vista dei ruoli, si separano, dovrebbero separarsi alla porta di casa.

Un esempio lo fornisce l’esperienza di C*, un giovane studente universitario che ha stabilito una bella tradizione familiare: al termine di ogni esame con esito positivo passa a trovare il padre che lavora come dirigente in una società di Roma. Solitamente C* avverte telefonicamente suo padre che gli farà visita al lavoro, se non lo disturba. Stavolta però tenterà di sorprenderlo, suo padre non sa dell’esame, gliene comunicherà il superamento dal vivo. E così C*, mentre prepara la sua sorpresa, sarà sorpreso a sua volta: ascensore, terzo piano, ufficio del personale, direzione. Il padre non aspetta una visita di suo figlio, perciò gli si mostra per il dirigente che è, intento a discutere con alcuni dipendenti, senza degnare di uno sguardo il ragazzo, che rimane seduto in corridoio, a guardare suo padre che lavora, nel suo ruolo, senza assomigliare minimamente all’uomo che gli ha insegnato ad allacciarsi le scarpe e ad amare la pesca. C* “non riconosce” suo padre: il figlio e il dirigente, il padre e l’utente non si possono incontrare, non si sono mai visti prima, perché i loro habitat rispettivi sono naturalmente separati. Altra situazione tipica del “non riconoscimento” è quando ci sorprendiamo che un nostro conoscente, sgradevole e scostante, misantropo a detta di tutti (quelli del nostro gruppo, ovviamente), si comporti in modo completamente diverso con gli amici che ha conosciuto anni fa durante le vacanze. Qualcuno sembra sorpreso che abbia trovato altri amici, quasi non sembra la stessa persona che “tutti noi” conosciamo già. Evidentemente fa il misantropo solo con noi, cioè riveste, si condanna (e ci condanna) a quel ruolo solo all’interno della nostra realtà di gruppo, mentre in altre situazioni sembra una persona dinamica, effervescente, sorridente. Quella di misantropo è, in altri termini, la condizione di chi sceglie la periferia del nostro gruppo, lontano asteroide in un sistema planetario all’interno del quale non riesce che a esprimersi e comportarsi così, evidentemente perché non ha trovato un ruolo (centrale o secondario) migliore. 



Le prossime tappe del percorso saranno pubblicate a breve su Dire, fare, insegnare: per rimanere aggiornato e non perdere le novità dal mondo della didattica consulta la nostra home page e iscriviti alla newsletter.