Dire, fare, insegnare
Dire, fare, insegnare
Dire, fare, insegnare

Percorsi in codice alla scuola dell'infanzia

Serena Gusmini, docente della scuola per l'infanzia, ha condiviso con Dire, fare, insegnare la sua riflessione e la sua esperienza sull'uso del coding e del pensiero computazionale con i più piccoli.

Esperienze di insegnamento  Grandi insegnanti 
09 febbraio 2021 di: Serena Gusmini
copertina

Serena Gusmini, insegnante nella scuola dell’infanzia da più di trent’anni, riflette sui vantaggi dell’insegnamento del pensiero computazionale come strumento per mettere in moto quel meccanismo di “imparare a imparare”.



Il primo embrione relativo all’educazione al pensiero computazionale viene presentato all’attenzione delle istituzioni scolastiche nel 2006 nel documento relativo alle competenze chiave per l’apprendimento permanente, definito dal parlamento europeo.

Già nel 2007 le indicazioni ministeriali per il curricolo della scuola dell’infanzia inseriscono nei traguardi di competenza l’opportunità di utilizzo delle tecnologie, seppure in modo molto poco definito e lasciando quindi spazio alla creatività e all’intraprendenza di sperimentazione di ciascun insegnante. Ugualmente vaghi rimangono i riferimenti alle tecnologie nelle indicazioni del 2012.

Con il documento ministeriale “Indicazioni Nazionali e Nuovi Scenari del comitato scientifico nazionale per la scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione” (2017), vengono infine esplicitati con chiarezza i significati e gli obiettivi a cui deve tendere l’educazione al pensiero computazionale, mettendolo in relazione con tutti gli ambiti della vita quotidiana già a partire dalla scuola dell’infanzia. Significati e obiettivi richiamati poi in modo esplicito e preciso anche nelle linee guida relative all’introduzione dell’educazione civica 20 agosto 2019 in relazione alla cittadinanza digitale.

La fatica all’utilizzo delle tecnologie nella scuola dell’infanzia è emersa con prepotenza nei mesi del lockdown, quando a fronte della chiusura delle scuole si è reso necessario “inventare” una forma di didattica a distanza per continuare la proposta educativa e formativa che è rimasta bloccata.

È stata la prima volta che l’intera categoria delle insegnanti si è trovata di fronte alla domanda: “E adesso cosa faccio?” e probabilmente anche alla consapevolezza che i media erano l’unico mezzo che potesse rispondere alle necessità del momento. Tuttavia la carenza di competenze informatiche di base è stata un grosso ostacolo, perché le esigenze richieste dall’azione didattica a distanza sono molte e complesse, e non si possono inventare da un giorno all’altro.

La consapevolezza dell’importanza delle competenze nell’utilizzo finalizzato dei media è emersa prepotente, ma il percorso per la costruzione delle competenze informatiche è lungo e complesso e deve essere iniziato con tempi precoci. Come avviare quindi i bambini su questa via in modo che le loro competenze possano crescere e maturare con gradualità?

Innanzitutto alla scuola dell’infanzia non è necessario avere a disposizione attrezzature particolari, ma fornire al bambino occasioni per costruire una modalità di pensiero computazionale così come viene definita nel documento ministeriale del 2017: “Per pensiero computazionale si intende un processo mentale che consente di risolvere problemi di varia natura seguendo metodi e strumenti specifici pianificando una strategia.”

Questa definizione ci dice che il pensiero computazionale e la cittadinanza digitale sono ben altro rispetto all’utilizzo passivo o ripetitivo di un gioco al tablet, al pc o con lo smartphone, e ci suggerisce che non si improvvisano con un percorso didattico “a tempo determinato”. Il pensiero computazionale si costruisce nel tempo in modo trasversale attraverso ogni tipo di esperienza.

Anche detto così, sembra una cosa comunque troppo complessa, troppo “grande” per bambini così piccoli come quelli della scuola dell’infanzia, ma tutto comincia ponendo la prima pietra e andando poi a costruire.

Premesso che quando arriva alla scuola dell’infanzia a circa 3 anni un bambino ha già messo un bel po’ di pietre, il percorso è quello di ampliare l’offerta delle opportunità di esperienza a tutto tondo.

Se andiamo a vedere cosa dice la neurofisiologia dell’apprendimento, la prima cosa che ci balza all’occhio è che ogni forma di conoscenza e di apprendimento si alimenta attraverso gli stimoli che arrivano dai sensi, e in particolar modo dagli stimoli che arrivano dal movimento, poi organizzati dal pensiero e codificati attraverso il linguaggio.

L’attività neuromotoria rappresenta quindi lo strumento indispensabile da mettere a disposizione di ciascun bambino al suo ingresso nella scuola dell’infanzia. Ogni giorno i bambini devono avere a disposizione spazio e tempo per strisciare, correre, saltare, fare rotolamenti e capriole, superare ostacoli fisici… Mettersi continuamente in relazione con uno spazio, consolidare schemi motori conosciuti e scoprirne di nuovi, permette al bambino di sviluppare una maggiore quantità di connessioni sinaptiche e quindi, nel percorso di crescita, arrivare a processare una maggior quantità di dati con maggiore velocità. Un bambino che si muove poco sviluppa un sistema neuronale povero che può gestire poche informazioni, un bambino che si muove molto sviluppa un sistema neuronale complesso in grado di gestire velocemente un maggior numero di informazioni.

I bambini che hanno avuto molte esperienze motorie, già a metà del secondo anno di frequenza della scuola dell’infanzia sono in grado di gestire con sicurezza le relazioni spaziali, anche fra oggetti, e iniziano a usare correttamente la partizione dello spazio in destra e sinistra rispetto a sé.

Osservando i loro giochi spontanei, si rileva anche che sono più organizzati, più creativi, seguono percorsi di ideazione più logici, e “perdono” meno tempo alla ricerca di soluzioni improbabili essendo più consapevoli delle correlazioni causa-effetto. Ne risulta quindi un beneficio anche in termini di tenuta dell’attenzione, perché il procedere fluido delle loro attività ne mantiene alta la motivazione.

Che nesso c’è tra tutto questo, la tecnologia e i relativi linguaggi?

Fare coding nella vita reale, significa organizzare una serie di azioni mettendole in relazione spazio-temporale tra di loro per arrivare a un prodotto.

Fare coding in tecnologia, significa programmare una serie di istruzioni mettendole in relazione spazio-temporale tra di loro per arrivare a un risultato.

Praticamente lo stesso processo: uno sul piano concreto, l’altro sul piano astratto, entrambi con un obiettivo da realizzare.

Nell’ultimo anno di scuola dell’infanzia, il pensiero logico e analitico è sufficientemente strutturato per cominciare a proporre i primi concetti di programmazione di un semplice robot.

Sarebbe però un po’ sprecato, ritenere che l’obiettivo di questo lungo percorso abbia come sola finalità quella di far muovere un automa su una superficie. Le esperienze motorie che stanno all’origine del percorso, sono la base per costruire esperienze che necessitano di essere indirizzate, raffinate, razionalizzate, verbalizzate per mettere in moto quel meccanismo di “imparare ad imparare” che accompagna ciascun individuo lungo il corso della propria vita.