Dire, fare, insegnare
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Ruolo e persona. La terza tappa della riflessione di Piero Bonanni

Nell'ultima parte del percorso di riflessione iniziato qualche settimana fa il professor Piero Bonanni parla dei ruoli e del loro rapporto con l'educazione dei ragazzi.

Esperienze di insegnamento 
07 dicembre 2020 di: Piero Bonanni
copertina

Nella terza tappa del percorso di riflessione, inaugurato con l’articolo Un salto indietro. Ruoli contesti e dinamiche di gruppo dalla preistoria a oggi e proseguito con L'etologia applicata alla classe e lo scontro dei ruoli, Piero Bonanni affronta il tema chiave del ruolo dell’insegnante e dell’importanza della costruzione di quest’ultimo davanti alla classe.



La personalità è una questione di “maschere”, lo si deduce dall’etimologia latina di persona, che è “l’amplificatore” degli antichi attori teatrali: mi sono sempre chiesto se, come nel teatro arcaico, non ci siano, anche nella vita quotidiana, dei ruoli prestabiliti e individuabili dalla comunità. All’interno dei gruppi umani che frequentiamo e in cui spendiamo energie per rivestire i nostri ruoli, siamo osservatori empatici e acuti, pronti a leggere l’intonazione di una parola come se fosse un terremoto e un cenno del mento come se fosse una cannonata, ma il resto dell’umanità la intendiamo come un’astrazione, un’immensa estensione di uno spazio emotivo che capiamo solo se assomiglia a uno dei tanti, piccoli gruppi che viviamo. All’Umanità guardiamo con inevitabile distacco emotivo: le religioni propongono la fratellanza universale come massima realizzazione dell’essere umano, proprio perché la fede tenta di operare il superamento di un limite genetico. Siamo, in altri termini, diffidenti per natura, ma possiamo essere aperti verso gli altri per cultura. In tal senso è significativa la testimonianza degli astronauti che, dopo qualche settimana in orbita intorno alla Terra, si domandano che senso abbiano i confini politici e i conflitti se proveniamo tutti dallo stesso luogo: affermazioni simili confermano l’idea che essi, trovandosi in un piccolo gruppo esterno al pianeta, abbiano la prospettiva di un solo unico altro gruppo possibile oltre al loro, cioè quello degli esseri umani, di cui sentono la mancanza. La prospettiva degli astronauti è propriamente religiosa, mentre scientifica è la possibilità che hanno di orbitare intorno al pianeta.

 Partendo dal presupposto che la nostra umanità sia inscritta in gruppi, la scuola mi sembra il luogo ideale per la rappresentazione dello spazio umano primitivo (primigenio, non in senso negativo, ma in senso semplificato), in quanto ogni aula accoglie una piccola comunità che si dà delle regole, un linguaggio (addirittura), delle tradizioni e - argomento fondamentale per gli insegnanti - dei ruoli funzionali al successo: in natura il successo è rappresentato dalla sopravvivenza, a scuola, metaforicamente, è lo stesso, si tratta cioè di un successo culturale che nasce dal benessere vissuto da chi trova il ruolo più adatto per sé.

Entriamo a scuola a settembre, la lista delle classi è completa e curiosiamo nell’elenco degli iscritti: nomi di perfetti sconosciuti. Suona la campanella, accogliamo gli studenti, “professore, la attendono già in classe”. La comunità presente a metà settembre nell’aula è formata da questi 18-30 studenti che, fino a qualche mese fa, vivevano in altri gruppi, dove vigevano regole diverse, ruoli diversi, ambienti di apprendimento diversi. Ovviamente le regole scolastiche sembrano le stesse, ma non sono vissute nello stesso modo, perché la nostra credibilità e la credibilità della nostra sezione o del nostro istituto fanno la differenza, perciò parto dal presupposto che cambiare gruppo significhi cambiare mondo, anche se, sulla carta, i due territori sono in continuità. Osservo gli studenti mentre mi presento: ancor più essi stanno osservando me, stanno cercando di capire qualcosa che non dirò a voce, come il mio carattere, il mio stile di vita, il mio livello di benessere, le mie relazioni personali, il mio modo di lavorare, le mie debolezze, le mie passioni, i miei limiti. Stanno capendo se valga la pena di ascoltarmi e per quanto tempo. Se tutto andrà bene, mi dimenticherò della maggior parte di questi studenti nel giro dei prossimi 5-10 anni: prima dimenticherò i nomi, poi i cognomi, poi la loro classe, poi comincerò a confondere i pochi superstiti di cui avrò memoria e non saprò più dire chi andasse in classe con chi e in quale anno. Alcuni di loro, invece, si ricorderanno di me per tutta la vita. Perché? Semplicemente perché è avvenuto un imprinting sulla classe, un’impressione (così forte da risultare quasiindelebile) che avviene nel momento in cui il gruppo incontra il suo docente e quindi nasce come nuova comunità: ogni attimo di questo incontro sarà fondamentale per il futuro, ormai me ne rendo conto, perciò interpreto la mia parte (e il mio ruolo) con la massima attenzione, perché il minimo errore in questo momento può generare enormi problemi.

La prima impressione non è l’unica che conti davvero, ma semplicemente quella così decisiva da lasciare una traccia molto ben definita nel tempo. È quella che influenza più a lungo la relazione con gli studenti, nonostante possa essere istantanea. Possiamo rettificarla a fatica, perciò è bene che sia perfetta cioè coerente con il messaggio che vogliamo inviare a chi non ci ha mai visto prima in un determinato ruolo. Sono davvero tentato, l’anno prossimo, di entrare la prima volta in una classe e di simulare l’inciampo a una mattonella, appena dopo la porta. Potrei presentarmi trasandato, potrei impiegare un tono di voce sgraziato, mostrarmi esitante. Potrei aprire la porta dell’aula e starnutire sonoramente. Quanto tempo dovrei poi spendere per dimostrare di essere preparato allo svolgimento del mio lavoro? Possibile che basti così poco per iniziare male il percorso di lavoro con gli studenti? Secondo me basta anche meno di uno starnuto. La sicurezza nei nostri mezzi è l’arma migliore che abbiamo per rassicurare chi ci ascolta, per comunicargli che è in buone mani, che il percorso di studi sarà serio, che noi siamo persone serie: le qualità che possediamo possono emergere dal nostro modo di presentarci e, se la combinazione è convincente, gli studenti crederanno di avere davanti agli occhi un professionista che è preparato anche perché lo sembra, senza discontinuità che porterebbero a complesse esitazioni. 

Ovviamente esiste l’alternativa, quella cioè di separare la presentazione del docente dalla sua qualità, secondo l’esperimento dell’inciampo sulla mattonella. Sembrare impacciati per poi dimostrare di essere capaci e preparati può essere un modo di porsi, ma non credo che sia quello più efficace, anzi ritengo che il percorso contrario abbia giovato maggiormente al mio rapporto con gli studenti e alla mia carriera: presentarsi in modo molto serio, coerente, rigoroso e poi, secondariamente, a percorso avviato, a relazioni del gruppo già stabilite, sfumare con l’ironia, dirigersi verso un approccio empatico, passare dall’affermazione della cattedra a quella dei banchi di scuola, sottolineando che anche il docente è stato studente, ad esempio. Mentre presento il programma o le regole di comportamento o i diritti e doveri degli studenti, il nuovo gruppo muove i suoi primi passi osservando e osservandosi: in base alle forze interne (i caratteri e le propensioni dei ragazzi) si creeranno delle strutture spontanee (amicizie, simpatie, indifferenze, antipatie, perfino avversioni) espresse dalla configurazione stessa dei posti ai banchi, il tutto nel giro di 2-3 settimane. Lasciamo pure i nostri studenti liberi di scegliersi il compagno di banco, facciamo conoscere loro tutti i docenti del consiglio di classe e aspettiamo 3-5 settimane: assisteremo alla situazione che tutti conosciamo e che discutiamo, in maniera sempre diversa, in occasione delle prime riunioni. “Quei ragazzi vanno separati, si distraggono”. “Quelle ragazze si conoscono da anni, separiamole, rischiano di creare un gruppetto”. “Quelli all’ultimo banco creano confusione durante le lezioni”. “A me sembrano molto educati, c’è molto silenzio durante le mie lezioni”. “Durante le mie ore è difficile lavorare”. 

Queste osservazioni le prese molto sul serio il giovane William Golding, un geniale maestro elementare di 25 anni che, dalle sue esperienze in classe e dal successivo servizio nella Marina britannica, passando significativamente da unaclassis all’altra, trasse le intuizioni che confluirono ne “La grande trilogia del mare” e ne “Il Signore delle mosche”, un tesoro letterario e comportamentale per ogni docente, specialmente per quello delle scuole secondarie di secondo grado: infatti l’autarchia dei superstiti del suo più celebre romanzo non ha nulla a che vedere con la brutale condizione in cui verserebbero gli omologhi di Ralph, Piggy e Jack, se solo avessero l’età dei miei studenti, giovani con un’età variabile dai 14 ai 18 anni, ragazzi e ragazze “di educazione democratica e di buona famiglia” iscritti al liceo, esemplari curati e motivati di Homo Sapiens Sapiens che devono inserirsi nell’aula come nuovo spazio e nella classe come nuovo gruppo. Individui talora emotivamente instabili che, ovviamente, lasciati a se stessi su un’isola deserta, finirebbero con l’ammazzarsi l’un l’altro molto prima dei ragazzini britannici di cui scrive Golding, che almeno hanno resistito per molti capitoli prima di darsi a quelle rigide contrapposizioni che sono sanabili solo dal confronto fisico.



Si conclude con questa riflessione il percorso iniziato qualche settimana fa tra le pagine di Dire, fare, insegnare; per rimanere aggiornati sui nuovi contenuti e non perdere le novità dal mondo della didattica consultate la nostra home page  o iscrivetevi alla newsletter.