Dire, fare, insegnare
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Train the mentors. Hackerare un problema

Matteo Vignoli, docente del dipartimento di Scienze Aziendali dell’Università di Bologna e fondatore di Future Food, spiega l’approccio del design thinking e del prosperity thinking per hackerare e risolvere i problemi e le sfide del futuro.

Metodologie  Grandi insegnanti 
12 aprile 2021 di: Matteo Vignoli
copertina

Il secondo incontro di “Train the mentors”, il ciclo di incontri di Fondazione Euducation per preparare i docenti alla sfida dell’Hackathon2021 si è concentrato sul tema della progettazione efficace delle soluzioni e dell’approccio per risolvere e “hackerarei problemi. In generale hackerare un problema significa affrontarlo e risolverlo proponendo e applicando soluzioni innovative; e per creare tali soluzioni non si può fare a meno di pensare al futuro, all’incontro e allo scontro fra ciò che siamo e ciò che vogliamo essere. Per rappresentare questo legame non c’è punto di partenza migliore del cibo.

Non solo il cibo riveste un ruolo essenziale nella cultura italiana ma è al centro di molte delle sfide decisive dei prossimi anni; è un elemento della cultura spesso usato per raccontare l’innovazione perché rappresenta una grande parte di ciò che siamo. Parlando di cibo con le persone, infatti, emerge facilmente come molti lo colleghino alla bellezza, ai ricordi, alla famiglia, al proprio territorio: in una parola alla tradizione. E se intendiamo il cibo come una tradizione varrà la pena di chiedersi cosa sia in fondo una tradizione. Comunamente si usa la parola tradizione per descrivere fenomeni radicati nel passato che hanno un legame con il futuro.

Prodotti tradizionali e storici, come il parmigiano reggiano o il pane, sono nati centinaia e migliaia di anni fa e possiedono una storia, ricca di cambiamenti, scoperte e innovazioni, che ha permesso loro di giungere fino a noi. La celeberrima tavoletta di cioccolato per esempio fu inventata a metà dell’Ottocento dal farmacista francese Antoine Menier. Il cioccolato infatti veniva venduto in polvere in farmacia come rimedio contro la depressione, ma la sua nuova forma in tavoletta gli permise di avere un altro tipo di diffusione e ne cambiò l’uso nella società, rendendo fra l’altro Menier l’uomo più ricco di Francia.

Tutti e tre i prodotti citati sono prodotti tradizionali, gustati da migliaia di anni, ma sono anche il frutto di un’innovazione. Esiste dunque un legame indissolubile fra tradizione e innovazione, anzi si potrebbe dire che una tradizione è un’innovazione che ha avuto successo. Il successo però non deve essere dato per scontato, e molte tradizioni si sono perse nei tempi perché non più rilevanti per le persone. Di conseguenza per mantenere viva una tradizione è indispensabile continuare a innovare, poiché per rimanere un punto di riferimento essa deve continuare a rispondere ai bisogni delle persone, i quali possono essere soddisfatti da una nuova scoperta o da una modifica ma anche dalla trasmissione delle conoscenze. La gigantesca mole di conoscenze, tradizioni e varietà della cucina italiana per esempio trova la sua origine nel primo libro di ricette, scritto più di 2000 anni fa da un autore romano: da quello slancio creativo e da quel bisogno di trasmissione del sapere gastronomico si è originata un’immensa tradizione, ma anche la più grande industria globale con le sue numerose criticità.

Le modalità di produzione, raccolta, stoccaggio e conservazione del cibo, infatti, pongono problemi di grande complessità: dall’uso degli imballaggi di plastica, che generano scarti in quantità preoccupanti, al problema della produttività del suolo. Se tutta la storia dell’agricoltura si è basata sulla necessità di rendere il terreno più fertile per sfamare più persone, oggi ci si trova di fronte al problema dell’impoverimento del suolo causato dallo sfruttamento intensivo. Nel ricorso all’innovazione quindi non bisogna mai trascurare la presenza di due attori fondamentali: l’umanità e il pianeta.

Per conciliare questi due aspetti è opportuno bilanciare interessi e conseguenze, come propone di fare Kate Raworth nel suo cosiddetto “Modello a ciambella”. All’interno del suo modello progettuale Raworth propone di cercare soluzioni innovative che siano all’interno di un’area delimitata da un lato dalla rispondenza ai bisogni della società e dall’altro che non danneggino il pianeta.

Per rispettare il limite inferiore, ovvero che quanto produciamo sia desiderabile a accettato, è opportuno partire dai bisogni delle comunità e perseguire quindi una strategia di human-centred design. In questo approccio si parte dalle problematiche individuate in una comunità tramite un’accurata indagine, si generano idee per risolverle e infine si tenta di implementare le nuove idee e applicarle in un contesto concreto.

Per affrontare e vincere le sfide dei prossimi anni è necessario cambiare completamente la forma mentis vigente e il modo in cui ci si approccia oggi ai problemi. Si deve superare l’ottica di mercato in cui il cittadino è solo un consumatore in cui instillare il desiderio di possedere oggetti, a un’ottica più inclusiva che persegua un giusto equilibrio fra ciò che i cittadini-consumatori desiderano e ciò che invece è positivo per il pianeta. In altre parole è il momento di passare da una visione del mondo come un egosistema, ossia un’organizzazione piramidale in cui tutti gli esseri viventi si trovano sottoposti all’umanità e sono al suo servizio, a un ecosistema, ossia un sistema orizzontale in cui tutti gli organismi viventi coabitano su un piano egualitario. Inoltre è fondamentale ricordare e diffondere la consapevolezza che il pianeta è un sistema chiuso in cui tutto ritorna, dove non esiste una dimensione “estranea” che non si ripercuote sulle altre: siamo tutti parte dell’ecosistema e per questa ragione l’unica possibilità di conciliare i bisogni dell’umanità e quelli del pianeta è generare innovazione.

Perché queste innovazioni rispettino il limite superiore è fondamentale considerare le risorse del pianeta insieme a quelli delle persone e questo approccio nel complesso prende il nome di prosperity thinking. Per diffondere il prosperity thinking si devono educare le nuove generazioni ai valori che lo ispirano e ci sono tre elementi fondamentali per raggiungere questo obiettivo:

1. Partire da sé: chiederci cosa possiamo fare in prima persona per cambiare le cose;

2. La sfida: cosa stiamo affrontando e cosa stiamo imparando durante una sfida;

3. Il contesto: il luogo di applicazione di ciò che impariamo durante la singola sfida deve partire dalla propria comunità e aprirsi a un contesto più ampio.

Il prosperity thinking dunque mette insieme queste istanze cercando di elaborare un metodo di progettazione universalista che coinvolga le esigenze umane e globali, nell’ottica di un miglioramento reciproco. L’obiettivo è quello di trasformare i limiti in tensioni positive e generare molteplici alternative di soluzione che attraverso la sperimentazione ci consentano di capire il giusto bilanciamento tra limiti e opportunità.

Per selezionare l’alternativa giusta dunque servono parametri e indagini ma serve soprattutto il confronto: per comprendere cosa sia più funzionale si dovrà rinunciare a qualcosa e scartare qualcos’altro. Le soluzioni non possono e non devono mai essere univoche e il confronto e il dibattito non devono fermarsi, poiché l’innovazione nasce proprio dalla tensione costante fra ciò che siamo e ciò che vogliamo essere.