Dire, fare, insegnare
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Per una didattica integrata del latino

Michele Di Mauro, docente di Latino che dal 2011 insegna in una high school del Maryland(USA), in questo articolo ci racconta la sua esperienza con la didattica integrata del Latino, il metodo "naturale" anche conosciuto come metodo "Ørberg".

Scuole nel mondo 
25 gennaio 2023 di: Michele Di Mauro
copertina

Quando nel 2011 ho ottenuto una cattedra di latino presso un istituto secondario del Maryland, nella contea di Baltimora, ho accettato la proposta con un briciolo di incoscienza ma anche voglia di provare qualcosa di alternativo. Tra i motivi che mi hanno spinto a un cambiamento così drastico di vita sia umana che lavorativa, ha influito indubbiamente la curiosità di poter insegnare latino con il metodo naturale, cioè come una lingua viva.

La transizione non è stata facile: la mia formazione era italiana, mi sono laureato a Torino in lettere e ho poi conseguito l’abilitazione all’insegnamento della classe di concorso A051 (italiano e latino) presso l’università statale di Milano. Insegnare il latino come lingua parlata, con un approccio ‘americano’ che di norma è meno teorico è stato un ‘viaggio’ affascinante ma denso di insidie. Passare dalla traduzione dal latino all’italiano di frasi desuete come: “le ancelle donano corone di fiori all’altare di Minerva” a situazioni in latino corrente nelle quali veniva richiesto ad un alunno di prenotare un aereo da Baltimora a Boston, è sicuramente stato uno spartiacque professionale che ha stravolto le mie certezze non solo sulla lingua latina ma sull’insegnamento in generale.

Perché studiare il latino?

Si può iniziare a formulare un progetto didattico, qualora si abbia ben chiara la mèta cui si vuole giungere al termine del processo proprio cercando di rispondere al quesito formulato da Andrea Rocchetto. Questo traguardo è naturalmente condizionato dalla fondamentale questione relativa all’utilità della disciplina di cui si intraprende lo studio, o, meglio, al perchési deve studiare una determinata materia.

Sebbene nessuno sembra mettere in discussione l’importanza del latino come lingua specchio di una civiltà, sono molti gli intellettuali di ogni tempo che hanno criticato il metodo didattico utilizzato per insegnarlo. Celebre risulta la critica al metodo didattico espressa da Pascoli, stimato poeta non solo in lingua italiana ma anche in lingua latina, il quale scriveva: “Si legge poco, e poco genialmente, soffocando la sentenza dello scrittore sotto la grammatica, la metrica, la linguistica. I più volenterosi, si svogliano, si annoiano, si intorpidiscono”.

La riflessione, in questo breve articolo, partendo dal presupposto ormai comunemente condiviso che il grammaticalismo è una disciplina didattica superata, tenterà di interrogarsi su quali tra le nuove strategie didattiche l’insegnante dovrà perseguire. Lo studio si baserà fondamentalmente sull’analisi comparativa del metodo tradizionale e del metodo Ørberg che interpreta lo studio del latino alla stregua di una lingua “viva” presentando esempi vissuti e situazioni di dialogo “attivo”.

Il metodo Ørberg o metodo naturale

Già Agostino lodava il metodo "naturale", con cui egli aveva imparato il latino sine ullo metu atque cruciatu, inter etiam blandimenta nutricum et ioca arridentium et laetitias alludentium. Quasi per gioco, insomma, fra chi lo blandiva e chi scherzava con lui. Deprecava d’altra parte il modo odioso e costrittivo col quale gli era stata insegnata la lingua greca. Rianalizzando questa sua duplice esperienza, Agostino non aveva dubbi nell’affermare che nell’apprendimento ha maggior valore la libera curiositas di quanto non ne abbia unameticulosa necessitas.

Le finalità primaria del metodo Ørberg è quella di leggere correntemente i testi classici. I più scettici potrebbero affermare che in fondo qualsiasi manuale di latino si prefigge questo scopo. La differenza invece tra il metodo Ørberg e quello tradizionale verte tutta sul valore del verbo: con il metodo “naturale” il latino bisogna leggerlo, con quello tradizionale tradurlo.

La polemica nei confronti del metodo tradizionale viene così spiegata da Luigi Miraglia:“con il metodo tradizionale si parte dalla morfologia, dopo aver perso un paio di settimane a spiegare l’alfabeto, la pronunzia (generalmente senza nessun accenno alla restituta, che, volentibus nolentibus nobis, è adottata dalla quasi totalità degli Europei) e le regole dell’accento (che si basano sulla quantità della penultima sillaba lunga o breve); si comincia a studiare così, ex abrupto, il sistema dei casi, come se si trattasse della cosa più facile del mondo, e li si studia tutti insieme; anzi, in verità si studiano anche i casi inesistenti, come il vocativo, che potrebbe benissimo essere considerato un’eccezione della seconda declinazione. Dopo aver imparato a memoria la primadeclinazione— questa cosa strana, che il ragazzo non aveva mai sentito prima, e che gli risulta completamente estranea — gli si assegna sei, sette, massimo dieci frasi di grande interesse contenutistico, del tipo “Le ancelle portano rose e viole sugli altari di Diana e di Atena”, oppure

“La sapienza e l’operosità degli abitanti sono la gloria della Grecia", tutte slegate tra di loro, poi si passa a studiare le eccezioni, e via alla seconda declinazione; stesso procedimento; terzo capitolo: "Degli aggettivi di prima classe, ovvero come imparare a confondersi declinando in orizzontale ciò che si è finora imparato in verticale"; quarto capitolo: "Della terza declinazione, ovvero come rendere difficili le cose facili”.

Secondo i fautori del metodo naturale non si può arrivare al difficile lavoro di traduzione senza prima aver acquisito la capacità di comprendere “all’impronta”, cioè senza l’ausilio dei dizionari il testo direttamente nella lingua di partenza. Solo attraverso questo presupposto la traduzione diviene una riformulazione della frase e non un’inutile decifrazione di un testo incomprensibile.

La critica che il modello muove all’insegnamento tradizionale non è quella di non descrivere in maniera sufficientemente corretta la sintassi latina, il problema sta nel vedere se, specialmente a livello di adolescenti, l’apprendimento sistematico sia il modo migliore per imparare la lingua, per diventarne padroni delle norme che ne regolano non solo il funzionamento in maniera tale da saperle enunciare in termini astratti, ma da averle trasformate in automatismi che permettano una lettura scorrevole con piena comprensione del testo.

Il metodo non prende quindi completamente le distanze dal procedimento tradizionale, esso piuttosto ritiene necessario ribaltare il processo di apprendimento di modo che la norma grammaticale sia prima incontrata nel testo e induttivamente ricavata dal contesto, e poi sistematicamente ordinata e schematizzata. Un procedimento induttivo quindi nella quale la sistematica e dettagliata descrizione della sintassi diviene uno strumento tra i tanti, una sorta di grammatica di riferimento, un’opera da consultare e non da memorizzare o approfondire. Il metodo tende pertanto ad insegnare le regole grammaticali di pari passo con argomenti di vita reale. Per esempio: invece di spiegare la perifrastica attiva, il costrutto che esprime un’azione che sarà compiuta nell’immediato futuro e che non ha un corrispondente esatto in italiano, ma che in inglese è paragonabile al presente progressivo (I am going to…) partendo dall’uso del participio futuro slegato da ogni contesto, introdurla piuttosto in una lezione “in situazione” in cui si chiede agli studenti di scrivere una lista di progetti da fare in vista di una vacanza.

L’aspetto forse più interessante e innovativo del metodo di Ørberg riguarda la sintassi. Essa non è pensata per la traduzione dal latino all’italiano ma solo per una completa e funzionale comprensione delle strutture della lingua stessa. Se normalmente sfogliando un manuale tradizionale ci si imbatte nei classici consigli di traduzione, nel tentativo di favorire una migliore adattabilità del senso latino a quello italiano, nel testo di Ørberg non ci si imbatterà mai in paragrafi che suggeriscono come tradurre il verbo “fare” e l’infinito. Il metodo parte infatti dal presupposto che bisogna diffidare della validità di una tradizione dal latino in italiano nei primi stadi di apprendimento linguistico, quando in realtà bisognerebbe tradurre per comprendere il senso di un brano.

Altro spunto degno di nota, forse quello che ha fatto più discutere e anche storcere il naso a molti colleghi riguarda l’idea di abituare gli alunni a pensare in lingua latina. Tale procedimento viene favorito o stimolato attraverso una sintassi fondamentalmente descrittiva che non compie parallelismi con la lingua italiana. Gli esempi poi, non sono mai tradotti, questo perché il discente dovrebbe arrivare allo studio della regola solo quando è già in grado di comprendere i contesti in cui questa compare. Per esempio: poiché in latino oltre al verbo avere, si predilige il costrutto con il verbo essere quindi nella frase italiana “Maria ha una penna” il latino vuole la frase “una penna è a Maria”, introdurre il costrutto naturalmente in situazioni di vita reale senza necessariamente spiegare il passaggio da habeta est, affidandosi dunque a un metodo emulativo che risulta decisamente più naturale.

Considerazioni

Al di là della “sincerità” di questo metodo, parlando brevemente della mia esperienza personale, posso affermare che se dal punto di vista dell’interesse gli studenti hanno accolto con maggior entusiasmo il metodo “naturale”, esso, almeno nei primi anni del biennio, finisce a mio avviso con il semplificare la lingua attraverso una ricerca di brani sì legati in una storia lineare e maggiormente seguibile, ma al tempo stesso costruita sulla forma italiana del SVO, che nulla ha a che vedere con la complessità della sintassi latina. Anche la scelta di spingere il discente a parlare e scrivere in latino oltre a porre fin da subito un quesito legittimo, ovvero quale latino parlare, impone anche un problema di correttezza etica e culturale: il latino è di fatto una lingua morta che non può e forse non deve essere equiparata alle lingue moderne perché la sua peculiarità è insita proprio nella sua funzione culturale di studio e riflessione e non nel suo valore strettamente comunicativo.