Dire, fare, insegnare
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Le emozioni nell’apprendimento e l’intelligenza quantitativa. Intervista con Daniela Lucangeli

Daniela Lucangeli, professoressa ordinaria di Psicologia dell'Educazione e dello Sviluppo presso l’Università di Padova, ha raccontato a Dire, fare, insegnare della centralità delle emozioni nel processo di apprendimento, del cambio di paradigma necessario per sviluppare l’intelligenza quantitativa e dei suoi studi più recenti.

Metodologie  Grandi insegnanti 
22 marzo 2021 di: Daniela Lucangeli
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In occasione della sua partecipazione al webinar “Dalla pandemia al post: competenze e risorse psicologiche per una scuola al centro della società”, nell’ambito di Didacta 2021, la nostra redazione ha intervistato Daniela Lucangeli, docente di Psicologia dell'Educazione e dello Sviluppo e presidente dell’Accademia Mondiale delle Scienze Learning Disabilities (International Academy for Research in Learning Disabilities – IARLD) Sessione Sviluppo.

Il dialogo si è concentrato sui temi di ricerca della professoressa Lucangeli, soffermandosi sulla centralità delle emozioni nel processo di apprendimento e sui problemi nello sviluppo dell’intelligenza quantitativa, che molti bambini e ragazzi sperimentano ancora a casa e a scuola, nonché sugli ultimi sviluppi accademici e scientifici in materia.

Qual è il ruolo delle emozioni nell’apprendimento scolastico?

Negli ultimi anni la ricerca scientifica che si occupa di apprendimento ha coniato un termine proprio per dare questa risposta in un'unica parola: si chiama warm cognition, cioè “[apprendimento] caldo”. Di fatto c’è stata una vera e propria rivoluzione negli studi, che ci ha portato a capire che non c’è nessun atto della vita psichica di ciascuno di noi in cui si possano scindere cognizioni ed emozioni. Le emozioni sono l’intelligenza antica del nostro cervello, cioè sono il primo modo in cui il sistema nervoso centrale è riuscito a intelligere e a comportarsi. Ciò vuol dire che le emozioni sono un segnale che il cervello dà all’intero organismo per ciò che riconosce come buono, e quindi da cercare ancora, e ciò che riconosce invece come pericoloso, come un allarme, un alert, e quindi da fuggire.

Tutte le volte che noi proviamo paura, la paura dice al nostro organismo “stai attento” perché potrebbe esserci qualcosa di nocivo, pericoloso, dannoso; tutte le volte che sentiamo invece desiderio, piacere o gioia, queste emozioni ci dicono “cerca ancora, è un bene per te”.

Come si collega tutto questo all’apprendimento? È facile capirlo. Se nel momento in cui si apprende e si sperimenta un’emozione che dice “Scappa!”, come la paura, la noia, l’ansia, il giudizio, il senso di inadeguatezza, queste emozioni sollecitano la memoria per inviare un messaggio di pericolo e di rifiuto. Quindi tutte le volte che noi ripercorreremo quell’apprendimento, oltre a ricordarci le nozioni apprese, ci ricorderemo di quelle emozioni negative che hanno dato l’allarme. E tutti noi se ci pensiamo siamo pieni di memorie di allarme, basta che ci venga chiesta la data della seconda guerra punica o la soluzione di una tabellina complessa e immediatamente ci viene alla memoria l’allarme, l’alert. Tutto questo ci ha fatto capire che una scuola davvero capace di ottenere il meglio da ogni funzione deve utilizzare non emozioni di ansia, angoscia, paura o noia, ma esattamente le loro antagoniste: curiosità, interesse, sfida cognitiva ottimale, l’alleanza con il docente, la fiducia, che deriva dalla consapevolezza di essere con chi ci aiuterà a trovare la soluzione alla nostra fatica.

Quindi questo rovesciamento determina un completo capovolgimento del sistema di alleanze: il docente è alleato dell’allievo contro l’errore e contro la fatica e non alleato dell’errore e della fatica attraverso il suo giudizio.

Lei si è occupata di psicologia della cognizione numerica e di sviluppo di intelligenza numerica, può spiegarci di cosa si tratta?

Questo è uno degli ambiti in cui il lavoro fatto sulla warm cognition ha trovato maggiore evidenza, almeno per me. La matematica è colma di “paura della matematica” e guardando da dove sono partita io stessa vent’anni fa fino a oggi, si vede che gli alert che davo vent’anni fa sono identici a quelli che do oggi. Vale a dire che abbiamo una situazione in cui l’apprendimento della matematica è un apprendimento in cui si perdono tantissime nostre risorse e che è uno degli ambiti di minore successo nella scuola italiana.

Questo perché la cognizione numerica ha delle caratteristiche che devono essere conosciute per poter essere nutrite bene attraverso la didattica. Una di queste è proprio sapere che cos’è l’intelligenza di quantità, che è un meccanismo innato, esattamente come è innato il linguaggio o la capacità motoria; e tale meccanismo innato ha bisogno di essere nutrito attraverso le sue funzioni. Perciò noi dovremmo urlare fin dal primo momento a tutti i genitori e gli insegnanti, fin dai primissimi anni di vita, che non bisogna aspettare la scuola per nutrire l’intelligenza di quantità ma che questa esplode nei primi cinque anni di vita nel riconoscimento proprio della quantità, nel riconoscimento della comparazione (di più/di meno), nel conteggio sulle dita (n+1/n-1), nella corrispondenza biunivoca. Dovremmo utilizzare un sistema che anche attraverso tutte le attività di crescita, dal gioco all’insegnamento vero e proprio, dia la possibilità alla quantità di porre delle radici in questa fase iniziale di sviluppo della cognizione che è l’alba dell’intelligenza di quantità, e i primi cinque anni sono determinanti.

Poi nell’ingresso a scuola, se la didattica continua a essere basata su strategie di tipo lessicale, come il calcolo scritto, con procedure verbali basate sulla memoria fonologica, rischia di determinare questa cecità al numero che è tanto descritta nella letteratura scientifica. Cioè i bambini fanno esercizi ciechi, senza utilizzare la manipolazione della quantità.

Riassumendo, è raccomandato nel periodo della scuola elementare, un lavoro che invece si basi sulle strategie di quantificazione, composizione e scomposizione dei numeri, che consentano soprattutto questo, la manipolazione delle quantità, come strategie di stima e di approssimazione al calcolo, soprattutto esercitato attraverso il calcolo a mente.

Esistono bambini poco portati alla matematica o ci sono semplicemente bambini che non sono stimolati nel modo giusto?

Il problema è che andrebbe fatta una riflessione complessiva su come noi stiamo sprecando il tempo in cui il cervello è più capace, a livello di neuroplasticità, di capacità di generare delle forme, che potremmo chiamare formae mentis, forme adatte a elaborare bene le informazioni. Questo spreco è dovuto al fatto che spesso non ne siamo coscienti, i genitori non lo sanno, gli insegnanti non lo sanno; e pensano che esercitare i numeri sia la stessa cosa che esercitare le parole e le lettere, invece sarebbe come - ed è un esempio che faccio da anni - se si insegnasse a nuotare a parole o si insegnasse a suonare il pianoforte a parole. Non è il dominio cognitivo, non dipende dalla qualità del didatta, perché usando soltanto le parole al didatta è impossibile ottenere il corretto meccanismo, che ha bisogno dell’esercizio di specificità cognitiva. È proprio questo che si deve capire. E questo esercizio di specificità cognitiva per i numeri basterebbe conoscerlo per alfabetizzarsi; è possibile per ogni genitore, insegnante o pediatra, oramai c’è talmente tanta ricerca sul tema che quello che è rimasto da fare è togliersi il vestito vecchio e mettersi il vestito nuovo.

Su che cosa si sono concentrati i suoi studi negli ultimi anni? C’è qualcosa di cui vorrebbe parlarci nello specifico?

In questi anni mi sto occupando soprattutto di portare la ricerca scientifica a conoscenza di tutti. E nello specifico mi sto occupando della prevenzione, ossia il prevenire lo stabilizzarsi nelle memorie di tutte quelle che possiamo considerare delle fatiche che ingorgano i nostri circuiti e non permettono di ottenere il migliore potenziale possibile. Lo sto studiando a livello di studi complessi del funzionamento del nostro “radar”, chiamiamolo così, ma lo sto studiando anche per essere un servizio per la comunità, nell’ottica di quella che io chiamo “scienza servizievole”. Questo è l’obiettivo delle mie ricerche oggi: studiare quello che serve perché questa prevenzione delle memorie che ingorgano i circuiti sia effettivamente possibile a tutti i livelli, Scuola compresa.



Foto Mondadori.