Dire, fare, insegnare
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Il ruolo dei sensi nell'apprendimento e nello sviluppo linguistico

Asteria Bramati, docente ed esperta di neuropedagogia, spiega perché il coinvolgimento di tutte le sfere sensoriali è fondamentale nel processo di apprendimento dei bambini, in particolare per quanto riguarda le competenze linguistiche.

Metodologie  Grandi insegnanti 
04 luglio 2022 di: Asteria Bramati
copertina

La lingua appresa da ognuno di noi è data dall’esperienza combinata di due modalità sensoriali: il vedere e il sentire. I bambini fin dalla nascita sono predisposti a riconoscere le equivalenze intermodali nelle informazioni tratte da questi due diversi canali sensoriali: essi riescono cioè a scoprire le somiglianze linguistiche tra quello che vedono e quello che sentono. Questa predisposizione costituisce una fase cruciale per sviluppo linguistico efficace.

Oggi, però, i bambini sono più facilmente esposti tramite i new media all’influenza del senso della vista, a danno dell'udito e in genere degli altri sensi. Uno studio condotto dallo psicologo Harry McGurk, pubblicato ormai più di quarant’anni fa su “Science” e che suscitò un notevole successo, dimostra che ciò che vediamo influenza notevolmente la nostra lingua parlata, anche a scapito di distorsioni di significato e di percezione. La ricerca di McGurk, condotta su un campione di popolazione adulta, mostra che se le persone vedono un video in cui un individuo articola le sillabe “ga-ga” e contemporaneamente sentono pronunciare le sillabe “ba-ba”, nel 98% dei casi percepiscono “da-da”, cioè né quanto visto né quanto sentito.

La spiegazione di questo di questo fenomeno molto singolare, conosciuta in tutto il mondo come effetto McGurk, è la seguente: se vediamo una persona a dire “ga-ga” e contemporaneamente sentiamo “ba-ba”, non vediamo la bocca aprirsi e chiudersi (come dovrebbe necessariamente accadere nella produzione del suono “ba-ba”). Il labiale che sentiamo non corrisponde cioè a quello che vediamo, e di conseguenza a livello celebrale avviene una distorsione cognitiva. Il nostro cervello è indotto a riconoscere un suono che è a metà strada tra le due articolazioni, cioè “da-da”.

È fondamentale per i bambini, per non cadere vittima di questa distorsione, poter guardare la bocca dell’adulto mentre parla. Ciò spiega la ragione per cui i programmi televisivi o quelli a pc non sono adatti all’apprendimento di una lingua; essi mancano di quello che gli scienziati chiamano effetto lipsmacking. Il “lipsmacking”, come spiega Giacomo Rizzolati nei suoi studi sui neuroni-specchio, è prodotto dall’alternarsi di piccoli movimenti di apertura e chiusura della bocca, accompagnati da movimenti di protrusione e ritrazione della lingua: gesti usati dagli esseri umani (ma anche dalle scimmie) come invito a entrare in relazione con altri, dando vita a comportamenti presociali tipici dell’infanzia.

L’acquisizione del linguaggio del bambino può riuscire quindi solo attraverso il dialogo con gli adulti. Spesso però i bambini leggono e-book e libri senza la partecipazione dei genitori, che credono che la lettura funzioni grazie alla sintesi vocale; in questo modo i bambini vengono privati di ciò che hanno maggiormente per lo sviluppo linguistico, un approccio alle parole e alle cose guidato dai genitori basato sui gesti e che coinvolga tutti i sensi.Una ricerca condotta dal neuroscienziato Andrew N. Meltzoff, per esempio, ha dimostrato che i neonati in età compresa tra i 12 e i 21 giorni imitano le espressioni facciali degli adulti, trasformando immediatamente ciò che vedono in movimenti dei muscoli mimici. Questo dimostra che gli individui hanno una predisposizione a collegare non solo i sensi tra loro, ma anche ad unirli alla propria motricità. La neurobiologia ci insegna difatti che i centri del cervello responsabili dell’imitazione sono gli stessi di quelli preposti al linguaggio: sensorietà e motricità sono strettamente collegate e costituiscono la base per le capacità cognitive più complesse (pensare, giudicare, pianificare).

Anche uno studio recente sulle moderne tecnologie, condotto da un gruppo di ricerca dell’università del Nevada, dimostra come gli oggetti reali vengono processati dal cervello in modo diverso rispetto alla loro rappresentazione per immagini in 2D o in 3D. I risultati, ottenuti con un metodo multidisciplinare che includeva specifici test cognitivi e dell’attenzione (fMRI e EGG), tracciamento dei movimenti oculari e realtà aumentata, mostrano che il cervello risponde molto più velocemente quando ha a che fare con oggetti con cui si può interagire direttamente. Questo esperimento smentisce un principio di base, cioè quello secondo cui un’immagine ha i medesimi effetti sull’attenzione e sul comportamento del suo corrispondente oggetto reale: dai risultati é emerso che la pulsione a toccare e a manipolare un oggetto è molto più forte se l’oggetto è reale.

Per capire è quindi necessario “com-prendere” l’oggetto. Chi impara “con le mani” non solo sviluppa i centri motori, ma attiva contemporaneamente ulteriori aree del cervello che riguardano la memorizzazione e l’ulteriore elaborazione del pensiero astratto. Lo sviluppo motorio è allora fondamentale non soltanto perché permette di imparare più in fretta, ma perché si riesce anche a impiegare meglio, a richiamare alla mente quanto appreso e a metterlo in pratica in maniera più creativa. Diversamente, passare la mano su una superficie piatta come quella del pc, senza alcuna caratteristica particolare, priva di qualsiasi correlazione tra l’impressione tattile e le immagini dello schermo, finisce per rivelarsi un non-evento sempre uguale, dal quale il bambino non impara attraverso i sensi. È solo attraverso l’interazione tra la vista e la mano (intesa come senso tattile e come organo preposto alla manipolazione degli oggetti) e anche di tutti gli altri sensi che avviene l’apprendimento reticolare.

In campo educativo la riflessione sul ruolo del corpo nei processi di insegnamento incontra le sue prime teorizzazioni già sul finire dell’Ottocento e nel corso del Novecento grazie alle figure di Cousinet e Frainet e al lavoro di Maria Montessori, ma è grazie alla riflessione di Merleau-Ponty che trova il suo punto di svolta. Secondo il filosofo francese lo spazio è il luogo possibile d’azione, non riconducibile alla mera definizione di spazio fisico, ma indissolubilmente legato al vissuto del corpo: ovvero uno spazio come luogo in cui ognuno ha investito di significato le proprie azioni.Bisogna quindi ricoprire la scuola della fisicità, per “com-prendere” tutto ciò che ci circonda.

Bibliografia

  • “Meglio toccare che guardare” in Mind, Marzo, 2018
  • Giacomo Rizzolati, Specchi nel cervello, Cortina, 2019
  • Manfred Spitzer, Solitudine digitale, Corbaccio, 2015