La docente Maria Giannini ha condiviso con noi un percorso interdisciplinare sui significati simbolici del “muro”, tra Inglese e Tedesco, storia e letteratura.
Secondaria  Grandi insegnanti Un viaggio attraverso la simbologia del muro può diventare interessante nell’ottica di un percorso interdisciplinare per la maturità. Partiamo da una frase di Joseph Fort Newton: “Men build too many walls and not enough bridges,” purtroppo molto attuale; e da due potenti connessioni letterarie in inglese e tedesco, quella con Herman Melville e quella con Franz Kafka, collegandole alla storia, all’arte, all’educazione civica, alle scienze.
Davanti a un muro ci poniamo alcune domande. Anche se più che davanti dovremmo dire dentro o fuori. Molto dipende dalla parte del muro in cui ci troviamo: rifugio o prigione? Sicurezza o paura? Familiarità o estraneità? Frustrazione o sollievo? Wall in inglese indica sia le mura (Hadrian’s Walls o The Great Wall of China) sia i muri, le pareti (the walls of our room) mentre in italiano la parola muro ha doppio plurale. Nel linguaggio e negli idiom questa parola perde spesso la sua neutralità per assumere un’accezione negativa in varie lingue. Spalle al muro, have your back against the wall; parlare al muro, talking to a brick wall; mettere un muro tra di noi, put up a wall between us; anche i muri hanno le orecchie, walls have ears. In inglese abbiamo anche go to the wall con il significato di essere rovinati, e hit a wall che vuol dire essere molto stanchi. Ma è sempre stato così?
Se pensiamo al mondo antico, ci vengono in mente le mura di Gerico, il cui crollo è narrato nel libro di Giosuè, oppure le mura della città di Troia, che rappresentano una difesa stoica. Significati simbolici sono sopraggiunti nelle epoche successive e certamente la percezione cambia a seconda dell’epoca in cui viviamo. Per chi è nato negli anni '80 del secolo scorso la prima parola associata al muro è senza alcun dubbio Berlino. Oggi per qualcuno la prima associazione potrebbe essere Trump. Per altri ancora i Pink Floyd: quello che è certo è che le connessioni non mancano, nella storia, nella cultura e anche nella letteratura.
Andando avanti nella storia, il vallo di Adriano era un tentativo di contenere l’eventuale avanzata dei Pitti, barbari per l’Impero. Nella serie tv “Games of Thrones” tratta dal ciclo di romanzi A Song of Ice and Fire di George R. R. Martin, la Barriera al confine nord dei Sette Regni è ispirata proprio a Hadrian’s Wall. Che siano gli Antropofagi dei Greci o gli zombie di “The Walking Dead”, al di là delle mura spesso è immaginata una minaccia apocalittica, una linea di confine tra l’umano e l’inumano. Anche la Muraglia Cinese, in larga parte fatta in realtà non di mura ma di confini naturali, aveva lo scopo di racchiudere il sé l’impero mostrando a chi ne era fuori la propria inarrivabile grandezza. Allo stesso tempo rappresentava però la paura di invasioni e ha tuttora un potente significato iconico: vista dall'alto sembra quasi il profilo di un dragone che dorme.
Il racconto di Franz Kafka Beim Bau der chinesischen Mauer (Durante la costruzione della muraglia cinese) scritto nel 1917, racconta della costruzione di una sezione a nord-ovest attraverso gli occhi di un anziano muratore. Per come la vede lui la costruzione unisce il paese. La vastità del territorio rende inadeguato qualsiasi racconto unico e unisce e occupa tutta la popolazione. Inoltre aumenta la popolarità dell'Imperatore: So groß ist unser Land, kein Märchen reicht an seine Größe Jeder Landmann war ein Bruder, für den man eine Schutzmauer baute, und der mit allem, was er hatte und war, sein Leben lang dafür dankte. Einheit! Einheit!
Le brecce nel muro però rimangono, così come l’incredulità dei cittadini cinesi delle province più remote che l’Imperatore non l’hanno mai visto e si fidano di racconti dei tempi andati. In fondo anche molti cittadini statunitensi di oggi si sono affidati alle parole di Trump che nella campagna elettorale del 2016 prometteva di “build a wall and get Mexico to pay for it”. Non è tutto ancora basato su valori simbolici (per quanto discutibili) di nazione e patria? In film come Sicario(2015) o serie tv come “Breaking Bad” (2008-2013), la zona di confine è militarizzata e la parte sud è immaginata come un mondo di violenza, degrado e terrore. Chiediamoci: la politica è capace di creare questo immaginario?
Un altro racconto cruciale quando si parla di muri è Bartleby, The Scrivener, di Herman Melville. Possiamo contestualizzarlo, in riferimento all’epoca storica in cui è stato scritto, ma anche trovareriferimenti universali e atemporali. Analizziamo questi passaggi:
My chambers were up stairs, at No. _ Wall street. At one end, they looked upon the white wall of the interior of a spacious skylight shaft, penetrating the building from top to bottom…. In that direction, my windows commanded an unobstructed view of a lofty brick wall, black by age and everlasting shade… I placed his desk close up to a small side-window in that part of the room, a window which originally had afforded a lateral view of certain grimy backyards and bricks, but which, owing to subsequent erection, commanded at present no view at all, though it gave some light. Within three feet of the panes was a wall, and the light came down from far above, between two lofty buildings, as from a very small opening in a dome.
Questo è l’ambiente in cui si svolge la prima parte della storia di Bartleby, lo scrivano, raccontata dal suo datore di lavoro. Cosa ci suggeriscono gli elementi della descrizione? Il fatto che sia nominata Wall Street ma senza un indirizzo preciso rende la storia inserita in un sistema economico ben definito che però è diventato universale. Ci viene detto che non c’è alcuna vista, alcun panorama. Ma c’è un po’ di luce. Questa luce viene dall’alto, come da una cupola, e rimanda all’elemento sacro. D’altra parte non tutte le mura proibiscono: le mura di una cattedrale, di una sinagoga, di una moschea sono state anche rifugio, hanno invitato gli uomini a passare attraverso, ad avvicinarsi al divino. In questo senso hanno rappresentato anche la salvezza.
Ma chi lasciamo entrare è sempre di estrema importanza, perché è parte di una comunità. Come lo era chi si trovava nella parte est o nella parte ovest di Berlino, divise da una barriera fisica protetta da torri di avvistamento e militari di guardia. Tra il 1961 e il 1989 il muro ha rappresentato però non solo una barriera fisica ma il simbolo ideologico della cortina di ferro che rendeva la vita nei due poli opposti del mondo, quello socialista e quello capitalista, completamente diversa. Le storie di chi ha tentato di scappare vanno sempre in una direzione: da est a ovest.
La coercizione e il controllo della Germania Est portarono molti leader occidentali, da Kennedy a Reagan, a esprimersi a favore della libertà e dell’unità. Da John Le Carré (The Spy Who Came in from the Cold, 1965) a Steven Spielberg (Bridge of Spies, 2015) al concept album The Wall dei Pink Floyd (1979) il muro è stato sempre emblema di alienazione e divisione. Ma Bartleby da quale parte del muro si trova? Cosa pensa, si chiede continuamente il narratore? Anche la descrizione del muro di mattoni è significativa: nero, consunto, sempre in ombra.
Forse è per questo che decorare e abbellire i muri potrebbe aiutarci a sopravvivere: d’altra parte durante l’adolescenza non decoriamo le pareti delle nostre stanze con foto e poster su cui possiamo fantasticare, come fossero porte su altri mondi, quasi come se il muro stesso potesse dissolversi? Questa in realtà è una pratica in voga sin dall’antichità. Molte ville Romane, pensiamo a quelle che vediamo a Pompei, sono decorate in modo da creare l'illusione di poter “uscire”: elementi verdi, colline, strade.
Successivamente, nel Rinascimento, artisti come Masaccio e Raffaello misero a punto un tipo di prospettiva che dava l'illusione di uno spazio esteso. Prendiamo ad esempio la Scuola di Atene di Raffaello. Ma la tecnica del trompe-l’oeil non è solo degli artisti italiani. Quando Banksy iniziò a disegnare su alcune sezioni della Barriera di separazione israeliana dai Territori Palestinesi (chiamiamola anche chiusura di sicurezza, security fence, ma rimane un muro e oggi lo sappiamo benissimo) come se i mattoni si potessero aprire come una tenda, diede la percezione di poter rimuovere una barriera: l'apertura mostrava un lembo di mare blu, come se il paradiso potesse trovarsi dall'altra parte.
Il documentario Wall di Simone Bitton (2004) si conclude con il passaggio quotidiano di persone che scalano la barrier, una silenziosa evocazione di quanto rimanga penetrabile, come evoca anche il film World War Z (2013): a Gerusalemme la presunta robusta difesa contro un virus zombie in realtà è permeabile. L’illusione è parte delle mura. Allo stesso modo le mura possono essere coperte nell'illusione di farle scomparire, come avvenne nel 1974, quando gli artisti Christo e Jeanne Claude imballarono Porta Pinciana a Roma.
Continuando con la storia dello scrivano leggiamo: And here Bartleby makes his home; sole spectator, of a solitude which he has seen all populous – a sort of innocent and transformed Marius brooding among the ruins of Carthage! For the first time in my life a feeling of overpowering stinging melancholy seized me. [----] For both I and Bartleby were sons of Adam. [---] Ah, happiness courts the light, so we deem the world is gay; but misery hides aloof, so we deem that misery there is none.
Il generale Mario davanti alle rovine di Cartagine rappresenta lo smarrimento dell’uomo. La prosa si fa quasi poetica, con le allitterazioni (sole spectator of a solitude), le metafore (paragona lo scrivano al generale romano sconfitto da Silla e rifugiatosi tra le rovine africane), echi shakesperiani (Ah, happiness courts the light…). Il narratore inizia a provare compassione, nel senso letterale del termine, per il suo dipendente: That for long periods he would stand looking out, at his pale window behind the screen, upon the dead brick wall… That behind his screen he must be standing in one of those dead-wall reveries of his. It was his soul that suffered, and his soul I could not reach. But he seemed alone, absolutely alone in the universe. A bit of wreck in the mid Atlantic.
La parola dead (qui possiamo fare anche un flashforward verso James Joyce e il racconto “The Dead” che chiude Dubliners) inizia a comparire a metà racconto, non in senso letterale (muro cieco, le sue fantasticherie senza uscita). Quando il lavoro aumenta Bartleby comincia infatti a ritirarsi con la sua risposta diventata famosa “I would prefer not to”. Questo può indicare il rifiuto dell’uomo di farsi fagocitare da un sistema che ha per fine solo il profitto e in questo senso è una forte critica alla società statunitense. E il narratore inizia a capire che non è poi così vicino a Bartleby, perché non può o non riesce a fare nulla per le sofferenze della sua anima, impenetrabile, insinuando questo dubbio universale: possiamo forse fare qualcosa per qualcuno che soffre? O siamo tutti soli, naufraghi, peggio ancora relitti, nell’Oceano infinito della nostra solitudine? Ma non è anche ipocrita che il capo ora tenga a Bartleby quando lui stesso all’inizio aveva inserito in ufficio un “folding screen”, una barriera per dividerli?
But he answered not a word; like the last column of some ruined temple, he remained standing mute and solitary in the middle of the otherwise deserted room. Bartleby non è letteralmente solo: lavora circondato dai colleghi e dal datore di lavoro, nonché dai clienti, spesso avvocati. Eppure svetta come l’ultima colonna di un tempio in rovina, rifiutandosi anche di parlare: And so I found him there, standing all alone in the quietest of the yards, his face towards a high wall… The yard was entirely quiet… The surrounding walls, of amazing thickness, kept off all sounds behind them. Ah Bartleby, ah humanity!
Le mura che osserviamo, che siano in un ufficio o in una prigione, o anche le pareti bianche delle nostre stanze, possono simboleggiare proprio la solitudine dell’uomo. Alla fine della storia, quando Bartleby è imprigionato, ha la possibilità di stare in cortile, a differenza di altri detenuti che hanno commesso reati più gravi, di cui vede gli occhi che lo scrutano. Ma anche lì è circondato da spesse e alte mura. Siamo dunque sempre separati dagli altri uomini?
Nella poesia di Robert Frost Mending Wall il vicino di casa afferma che “Good fences make good neighbors”. La frase si spiega perché fin dai tempi delle colonie gli stone walls erano necessari sia per tenere dentro che per tenere fuori (animali ad esempio), ma soprattutto per definire le identità di chi era all’interno. Ma oggi che i muri possono sembrare barriere obsolete, in un’epoca di droni, in un mondo globalizzato e senza barriere, i progetti per costruire muri purtroppo si moltiplicano. “The space of flow”, celebrato negli anni ’90 del secolo scorso, lascia il posto all’ansia provocata dall’assenza di confini e provoca la reazione opposta. Il loro significato psicologico è quello di proteggerci da chiunque minacci la nostra identità.
Dall’India alla Spagna all’Ungheria (in Europa ci sono state spesso reazioni violente alla politica dell’apertura) sembra ci sia questo desiderio di innalzare muri. Senza pensare, come diceva Calvino, a cosa (a chi) lasciamo fuori. D’altronde, per tornare e concludere con Robert Frost, dopo aver ascoltato la frase del vicino il poeta riflette: Before I built a wall I'd ask to know What I was walling in or walling out, And to whom I was like to give offence.
Immagini: Viaggio Routard, Flickr; Wikimedia Commons