Dire, fare, insegnare
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Lo spazio formativo

Asteria Bramati, docente Miur esperta di neuropedagogia, ha condiviso con noi il suo contributo sul valore dello spazio formativo per un apprendimento di successo.

Grandi insegnanti 
16 novembre 2021 di: Asteria Bramati
copertina

Michele Gentile ci dice che: “Ci sono luoghi che ti scelgono che ti amano, che ti vestono di bellezza, che non ti tradiranno mai”.

Non a caso, affinché la nostra esperienza del mondo e degli altri sia piena c’è bisogno di uno spazionel quale esprimerci, ma anche con cui confrontarci, in quanto la nostra capacità di accrescere in noi l'umanità viene data anche da come modifichiamo gli spazi e da come ne siamo modificati. Lo spazio non è quindi una quinta teatrale davanti alla quale svolgiamo la nostra parte ma è il luogo umano del nostro vivere.

La pedagogia spesso si dimentica di riflettere sugli spazi scolastici e soprattutto su come, con una diversa organizzazione, possano fare la differenza in termini di apprendimento tra chi riesce a essere coinvolto nell'azione educativa e chi no.

Secondo Kant il concetto di spazio è il principio organizzativo con cui percepiamo e interpretiamo il mondo, anche in modo astratto.

“Il nostro linguaggio è pieno di metafore spaziali utili al ragionamento e alla memoria in generale”, ha detto Kim Stachenfeld, neuroscienziato della DeepMind, un’azienda britannica di intelligenza artificiale.

Affinché ciascuno trovi il proprio Elemento (Robinson, 2011), inteso come spazio in cui le cose che amiamo e quelle che siamo bravi a fare si ritrovano insieme, è necessario trovare il luogo (anche fisico) che ci permette di avere buone idee. Ci sono caratteristiche proprie di un luogo, di una parte della città, di un edificio, di una casa o (aggiungo da insegnante) di una scuola che di per sé facilitano esperienze piacevoli e generano emozioni positive. Non si tratta solo di caratteristiche strutturali come la luce, il colore, le dimensioni, l'estetica, quanto piuttosto di aspetti di tipo relazionale, tali da permettere la nascita di un certo rapporto psicologico tra noi e il luogo e l'ambiente in cui viviamo (Inghilleri, 2021).

Ne consegue che l'azione educativa deve essere sempre contestualizzata e relazionata ai luoghi del sapere. Un esempio significativo di pedagogia relazionale è quella ideata da Loris Malaguzzi, che traduce quella che egli definisce come una didattica basata sui cento linguaggi in uno spazio educativo, inteso come Atelier o “laboratorio del fare”.

Tale spazio accoglie i linguaggi grafici, pittorici, manipolativi, ma anche quelli del corpo, legati al movimento, alla comunicazione verbale e non verbale. Lo spazio comprende i linguaggi iconici, logici, scientifici, naturali, etici, multimediali, pensando sempre a un bambino che conosce con tutto se stesso. Bambini e bambine hanno il privilegio di costruire differenti esperienze e mantenere processi cognitivi ed espressivi in stretta relazione gli uni con gli altri, per lavorare sulla connessione dei differenti campi di sapere. Tutto ciò è fondamentale affinché la scuola “diventi il posto più bello di ogni città, talmente bello, che la punizione per i bambini disobbedienti dovrebbe essere di impedirgli di andare a scuola il giorno seguente” (O. Wilde).

Ciò che è stato ipotizzato da Malaguzzi è oggi confermato dalle neuroscienze, se ieri Malaguzzi ci parlava di cento linguaggi per indicare il sapere plurimo che è intriso in ognuno di noi e che la scuola ha il compito di sviluppare, gli scienziati di oggi ci parlano, analogamente, dei mille cervelli, per indicare il fatto che il cervello elabora tutto ciò che viene a contatto con noi come se dovesse procedere in uno spazio (fisico e mentale) in modo molteplice e continuo. È ovvio che in questo contesto l'istruzione è il movimento delle tenebre alla luce (A. Bloom).