Dire, fare, insegnare
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Scambiarsi racconti. Alberto Manzi e la strategia didattico-motivazionale

La docente Giusi Palazzo presenta le prospettive pedagogiche ispirate dall’insegnamento del maestro Manzi e da nuovi paradigmi filosofici e didattici.

Grandi insegnanti 
11 marzo di: Giusi Palazzo
copertina

Figura poliedrica e sotto molti punti di vista atipica rispetto al contesto accademico e culturale del tempo, Alberto Manzi si è distinto nel panorama pedagogico italiano del secondo Novecento per l’impegno svolto in campo educativo. Per analizzare il complesso pensiero alla base della sua opera didattica serve tracciare un quadro del suo carattere e delle sue qualità personali, che gli consentirono di mettersi in contatto con tutti i suoi alunni e di raggiungere quella sfera emotiva fortemente connessa con il processo della cognizione.

Manzi cominciò a insegnare presso il carcere minorile Aristide Gabelli, facendo i conti con la maggiore difficoltà che incontra il personale docente: catturare l’attenzione dei ragazzi che lo ignoravano, mettendosi con la faccia contro il muro. Manzi comprese che parlare loro di geografia, di storia, di letteratura non sarebbe servito a nulla ed allora si affidò a quell’istinto che è presente da sempre nell’umanità, quello di narrare, e al suo corrispettivo bisogno, quello di ascoltare storie.

Il maestro raccontò agli ospiti dell’Istituto di detenzione la storia di un castoro, Grogh, che cercava la libertà assieme alla sua colonia. I ragazzi gradualmente iniziarono a interessarsi al racconto, lasciandosi coinvolgere dal tema portante della storia, la ricerca della libertà. Emerge così la figura di un educatore che si lascia ispirare dalle esigenze degli studenti e progetta le sue strategie educative sulla base delle loro reali possibilità di ascolto.

Solo dopo che l’alleanza tra le due parti si è stretta, è possibile procedere a una formazione che consenta di lavorare sui contenuti disciplinari e sull’apprendimento del codice comunicativo. Gli studenti di Manzi iniziarono a scrivere sulle buste del pane la storia di Grogh e poi, grazie al supporto del direttore del carcere, a stampare le storie, le opinioni, gli scherzi che gli passavano per la testa, gestendo il processo tipografico.



Dopo l’introduzione di questo giornalino, per i suoi studenti Manzi utilizzò lo strumento del teatro e la musica (con un’orchestrina), poiché riteneva necessario che i ragazzi fossero protagonisti di un percorso formativo attivo, cooperativo, intenzionale, costruttivo e autentico. In altre parole, di un percorso, che avesse tutte le caratteristiche dell’apprendimento significativo. Il maestro Manzi riteneva che la motivazione giochi un ruolo fondamentale nel processo di apprendimento di ciascuno, tema che gli studi odierni di didattica denominano come self‐regulated learning. Per Manzi è possibile pensare ai contenuti solo dopo che lo studente ha costruito dentro di sé una motivazione, che lo induca a formarsi per comunicare le proprie emozioni e pensieri.

L’attivazione di questa necessità di comunicare sarà sempre al centro della strategia motivazionale‐didattica di Manzi, forte della convinzione che per insegnare a leggere e scrivere è importante puntare sul bisogno che tutte le persone hanno di leggere gli altri e il mondo, di esprimersi e comunicare.

Ricerca di senso, nuova antropologia, nuova didattica

“Che cosa è l’uomo?” si chiedeva Gramsci, ponendo, all’epilogo della sua esperienza in carcere, la ricerca sulla natura umana come il problema cruciale della filosofia. Le aporie della tradizione culturale occidentale nel cercare di dare una risposta e l’orrore dell’esperienza totalitaria del XX secolo si ripercuotono nel bisogno di una nuova etica e di una nuova antropologia, nell’urgenza di un cambiamento radicale nel modo di essere dell’uomo.

Come sosteneva Umberto Cerroni, “accade così che sul tronco di una politica che pare dominata da urgenze tecnico-scientifiche viene a innestarsi una nuova esigenzaumanistica. […] La storia vuole oggi dai paesi più sviluppati un contributo non puramente economico e materiale: esige un altro rapporto intellettuale”. Remo Bodei, sul tema dei valori, ricorda: “Se adeguatamente intesi, gli ideali e i valori offrono le chiavi di accesso a codici di condotta e a piani di vita condivisi”.

Si fa strada allora la possibilità di formulare una concezione della natura umana diversa rispetto a un’antropologia che postula la razionalità come specificità dell’uomo, laddove piuttosto la soggettività può costituirsi emotivamente nel rapporto con l’altro e il carattere si fonda nella relazione. La specificità culturale dell’uomo si costituisce nel rapporto con l’altro ed è proprio attraverso la cultura che si fonda il passaggio dall’io al noi. L’emozionalità dell’esistere può rappresentare, quindi, l’inizio di un percorso di pensiero che coniughi logos e mithos, ratio e pathos, natura e cultura.

Le ricerche svolte nel capo delle neuroscienze sembrano muoversi nella stessa direzione, in particolare le ricerche di G.M. Edelman sulla rilevanza che assume il dominio dei valori rispetto a come ci orientiamo nel mondo e rappresentiamo gli eventi. Edoardo Boncinelli precisa che senza emozioni non c’è adeguata elaborazione delle cose apprese e forse nemmeno apprendimento, mentre Fritjof Capra, in polemica contro il modello computazionale e il riduzionismo biologico, sostiene che “tutte le nostre percezioni e i nostri pensieri sono modulati dalle emozioni”.



Il complesso processo formativo può essere svolto allora solo se l’incontro con i saperi codificati nelle diverse discipline è sorretto dall’integrazione col patrimonio cognitivo e affettivo del discente e del suo ambiente, nonché dall’esperienza positiva di molteplici relazioni sociali. Una posizione che rimuove il radicamento affettivo dal processo educativo appare troppo ideologica ed è, a parer nostro, destinata allo scacco, in quanto crede di poter istruire senza implicarsi, senza coinvolgere in dinamiche affettive i protagonisti della relazione educativa.

Il maestro Manzi aveva intuito, attraverso la pratica didattica e il suo personale e particolarissimo percorso umano, che i contenuti non vanno intesi come semplici strutture logiche, bensì come organismi aventi una struttura policentrica: tante aree vitali dentro le quali si organizzano dati e problemi, in un insieme non omogeneo, nel quale elementi non cognitivi, quali le motivazioni, le implicazioni affettive, i rapporti, caratterizzano sia i processi sia i prodotti culturali”.

Se si dà uno sguardo alle mnemotecniche ci si accorge subito che esse si nutrono di ricordi sinestetici, di odori e suoni, giacché la memoria dà forma alle emozioni. Tale tecnica, che si rivela ancora più preziosa in un tempo in cui la memoria scorre via feed sui social, deve la sua costituzione a campioni di memoria e teorici del metodo dei loci, come Giordano Bruno, il quale nella sua Ars Memoriae descrisse l’invenzione di un vertiginoso meccanismo per riuscire a non dimenticare nulla: il primo motore del ricordo, non a caso, era proprio la passione.

Bibliografia

  • F. De Bartolomeis, Programmazione e valutazione, Firenze, La Nuova Italia, 1973
  • F. Battistrada, Per un umanesimo rivisitato. Da Scheler a Heidegger, da Gramsci a Jonas, all’etica di Liberazione, Jaca Book, Milano, 1999
  • R. Bodei, Il noi diviso, Einaudi, Torino, 1998
  • F. Capra, La rete della vita, Rizzoli, Milano, 1997
  • U. Cerroni, L’identità civile degli italiani, Manni, Lecce, 1996
  • G.M. Edelman, La Metafora muta, MicroMega, 1998