Partendo da alcune considerazioni sulle origini del “gruppo”, il professor Piero Bonanni inizia un ampio percorso di riflessione sulle dinamiche del gruppo-classe, soffermandosi sulla complessità del ricoprire ruoli diversi in contesti diversi. Potremo seguire questo percorso dalle “pagine” di Dire, fare, insegnare, che dedicherà uno spazio a ogni tappa del viaggio.
Grandi insegnanti In questa prima tappa del ragionamento il professor Piero Bonanni usa il tema dell’eredità della formazione delle prime comunità umane come lente per indagare quali siano le conseguenze dell’appartenere a gruppi diversi, ricoprendo ruoli diversi, in una società complessa come quella moderna; un tema vicino agli insegnanti che getterà le basi per il resto del percorso.
Gli esseri umani hanno trascorso più di 2 milioni di anni in piccole comunità paleolitiche. Circa 200.000 anni fa l’Homo sapiens ha abbandonato l’Africa ed è giunto in Europa e in Asia. Negli ultimi 80.000 anni i sapienshanno rischiato l’estinzione di massa almeno una volta, creato gruppi più ridotti, sviluppato forme di comunicazione sempre più complesse, incrementato la specializzazione delle abilità personali. In questo processo, abbiamo appreso l’abilità di vivere in gruppo molto prima di comunicare verbalmente: i confini cronologici della protosintassi ci sfuggono, la fossilizzazione non ha lasciato testimonianze concrete del passaggio nevralgico tra pensiero razionale e comunicazione verbale. In particolare, poi, definire la data di nascita del pensiero razionale è faccenda problematica, visto che gli scimpanzé dimostrano di averne, eccome, anche gli scienziati non sanno se il pensiero razionale sia esso stesso una sintassi, se ne sia stata una causa o una conseguenza: sono incline a credere che, come specie, abbiamo prima capito come stare nelle comunità e poi stabilito cosa fosse necessario dire al loro interno.
In seguito è arrivato il successo alimentare del Mesolitico e il trionfo economico del Neolitico. Negli ultimi 10.000 anni le comunità umane si sono estese allo stesso ritmo dei tessuti urbani, ma con una sola pericolosa ed essenziale limitazione: gli esseri umani vivono un pianeta come il luogo geografico possibile, ma creano le relazioni più decisive solo fra un numero limitato di individui, questa è la loro geografia del vivibile. L’eredità evolutiva e le sempre più numerose innovazioni hanno cominciato ad andare di pari passo, a creare il progresso che le città hanno velocizzato, ma non bisogna dimenticare che coesistono nell’essere umano le valenze di cittadino e di membro di gruppi, che, insomma, dentro ogni cittadino c’è un homo sapiens sapiens non ancora addomesticato che vive in clan.
Qualcuno ha scritto che il numero delle persone a noi affini, con cui abbiamo una reale relazione emotiva, è di 17-18 al massimo. Coniuge, figli, amici più stretti, genitori, suoceri, fratelli, qualche cugino. Questa affermazione è significativa perché ricalca la dimensione numerica plausibile di un gruppo primitivo, ma deve essere sfumata, perché in realtà viviamo le nostre affinità contemporaneamente in molti gruppi, ovvero in tutte le comunità in cui agiamo i nostri ruoli.
Ogni gruppo potrebbe essere costituito da 17-18 membri al massimo, ma è difficile stabilire in quanti gruppi ciascuno di noi possa vivere davvero. È importante stabilire che con le persone a noi affini, conosciute, rispettate e amate nel corso della nostra vita, intrecciamo delle relazioni sulla base dell’inserimento in gruppi e perciò le frequentiamo non sempre allo stesso modo ed essendo noi stessi sempre uguali e diversi, perché ogni gruppo ha le dinamiche che esso, autoregolandosi, produce.
È un’esperienza che tutti abbiamo vissuto, tutti soffriamo di una sorta di “complesso di Odisseo”, l’eroe versatile che, pur essendo sempre se stesso, gioca ruoli diversi nelle comunità in cui capita durante la sua vita. Astuto consigliere, feroce guerriero, capo protettivo, ospite loquace, padrone vendicativo, artigiano operoso. Questione di versatilità o di adattamento? Credo che le due abilità si corrispondano, che cioè la versatilità sia l’abilità di adattarsi ai nuovi gruppi di cui entriamo a far parte, nel tentativo di occupare il posto adatto a noi in un dato contesto, laddove per “posto” intendo “ruolo”. Anni fa conobbi il dirigente di una banca svizzera che, durante una conversazione, mi confessò quasi vergognandosi che ogni tanto organizzava delle cene con i suoi vecchi amici d’infanzia per «non pensare, fumare sigari e dire cose sciocche». «Pour me décompresser», mi diceva, per decomprimersi dalla vita ufficiale e pubblica, dove errare non è umano ed essere superficiali sempre diabolico: è una questione di ruoli, anche il dirigente torna ragazzino, ogni tanto, e ne sente davvero il bisogno. Non si tratta di problemi legati alla personalità (o non solo) ma di vere e proprie scelte di ruolo.
Le prossime tappe del percorso saranno pubblicate a breve su Dire, fare, insegnare: per rimanere aggiornato e non perdere le novità dal mondo della didattica consulta la nostra home page e iscriviti alla newsletter.